Il portale Axios, tra i informati sugli scambi tra Israele e Stati Uniti, ne è convinto: l’amministrazione Biden avrebbe dato al governo di Benjamin Netanyahu tempo fino a metà marzo per fornire garanzie scritte riguardo l’impiego delle armi americane, il rispetto del diritto internazionale e l’accesso degli aiuti ai civili della Striscia di Gaza. E il mancato rispetto dei termini potrebbe provocare lo stop alle forniture militari Usa. La decisione non sarebbe contro lo Stato ebraico – fanno sapere le fonti – dal momento che Joe Biden ha firmato un provvedimento che richiede a tutti gli Stati importatori di armi americane di fornire questo tipo di assicurazioni sul loro utilizzo. Tuttavia, in un contesto come quello della Striscia di Gaza e in una cornice di rapporti tesi tra la Casa Bianca e Netanyahu, questo avvertimento può essere particolarmente rilevante. E diventare inevitabilmente un altro strumento di pressione di Washington.

Tregua desiderata

Il presidente Usa vuole a tutti i costi che si arrivi a una tregua. E nonostante lo scetticismo (e il gelo) con cui è stato accolto il suo slancio riguardo un possibile accordo tra Israele e Hamas entro questa settimana, la diplomazia statunitense, insieme a quella di Egitto e Qatar, lavora per evitare l’assalto a Rafah e una nuova escalation con l’arrivo del mese del Ramadan. Mentre oggi si attendono i colloqui intrapalestinesi a Mosca, voluti dallo stesso Vladimir Putin, ieri, il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha detto che la sua organizzazione è “flessibile” nelle trattative con Israele per la tregua e la liberazione degli ostaggi. Ma nello stesso discorso, ha invitato i palestinesi di Gerusalemme e della Cisgiordania a marciare verso al-Aqsa il primo giorno del Ramadan. La preoccupazione per una possibile esplosione di violenze nella città santa delle tre religioni monoteiste è stata espressa anche da fonti della polizia ai media israeliani. Secondo i funzionari che hanno parlato in forma di anonimato a Channel 12, il rischio è che le tensioni possano incendiare anche città dove non ci sono state proteste o violenze dopo il 7 ottobre. E sono in molti nelle forze di sicurezza ad avere chiesto alle forze politiche più radicali di evitare dichiarazioni o decisioni che inneschino la rabbia dei fedeli musulmani. Insieme al fronte interno, l’intelligence e le forze armate guardando con attenzione anche a quanto accade a nord dei confini israeliani.

L’attacco rivendicato

Ieri, le Brigate Ezzedine al-Qassam, l’ala militare di Hamas, hanno rivendicato un lancio di 40 razzi dal sud del Libano, con i missili Grad che hanno preso di mira due basi dell’esercito israeliano. Secondo quanto dichiarato dai miliziani, l’attacco sarebbe una “risposta ai massacri sionisti contro i civili nella Striscia di Gaza e all’assassinio di leader martiri e dei loro fratelli” avvenuti nella capitale, Beirut. Il sistema di difesa israeliano ha intercettato numerosi razzi partiti dal Paese dei cedri. Ma il segnale non è stato sottovalutato, così come non lo è stata la rivelazione di alcune fonti dell’Arabic Post secondo cui l’Iran avrebbe dato il semaforo verde a Hezbollah per un massiccio attacco contro Israele nel caso in cui lo Stato ebraico avanzi a Rafah e decida di puntare anche sul fronte nord. Secondo le fonti del media arabo, Esmail Qaani, il comandante della forza Quds dei Pasdaran iraniani, ha incontrato lunedì il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. In questo incontro, sarebbero venute fuori due questioni.

L’operazione in Libano

La prima è la volontà di Teheran di evitare attacchi improvvisi contro Israele per evitare di innescare un conflitto diretto. La seconda, invece, è stata quella di riflettere sulla possibile risposta di Hezbollah in caso di attacco israeliano. Secondo il leader sciita libanese, le Israel defense forces sarebbero pronte a lanciare un’operazione in Libano. Difficile dire se si tratti di propaganda o di guerra psicologica. Ma a quel punto l’Iran e l’intero Medio Oriente si troverebbero di fronte a uno scenario dai contorni indefiniti.