Israeliani e palestinesi sembrano avvicinarsi sempre di più al momento delle risposte. Da settimane il governo di Benjamin Netanyahu, Hamas, l’Autorità nazionale palestinese e i mediatori internazionali si preparano e discutono di nuovi scenari di guerra o prospettive di accordi. Ma più passa il tempo, più la finestra di opportunità per un’intesa sembra restringersi. Ieri le Israel defense forces hanno presentato un piano per evacuare i civili di Rafah prima dell’offensiva terrestre sulla città. Netanyahu lo ha confermato in un’intervista al programma “Fox and Friends”, parlando di “un piano combinato” per mettere in sicurezza gli abitanti e i profughi distruggendo i “battaglioni di Hamas” che ancora resistono nell’ultimo centro abitato nel sud della Striscia di Gaza. “Avranno l’opportunità di andarsene”, ha garantito il primo ministro israeliano a Fox.

Ma il capo del governo ha detto anche altro, e cioè che lo Stato ebraico “è unito come mai prima nel dire che ciò che non accetteremo è uno Stato palestinese che metta in pericolo Israele”. Per Bibi, la posizione espressa ai microfoni del programma statunitense non è quella personale o del suo partito, il Likud, ma “è la posizione del popolo di Israele”. E questo è del resto confermato anche dal voto della Knesset, che ha sancito l’adesione della maggioranza del parlamento israeliano alla linea di Netanyahu sul rifiuto di riconoscimenti unilaterali di un possibile Stato di Palestina da parte della comunità internazionale. Le dichiarazioni di Netanyahu inviano messaggi rivolti sia alla propria opinione pubblica che ai nemici contro cui combatte dal 7 ottobre. Ma le frasi del premier servono anche a sottolineare alcune linee rosse dell’esecutivo israeliano mentre si discute sulla possibile operazione a Rafah e i mediatori internazionali lavorano per il possibile accordo sulla liberazione degli ostaggi (secondo Israele dovrebbero esserne rimasti in vita 101) e sul cessate il fuoco nella Striscia.

Domenica il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha assicurato che nell’ultimo vertice a Parigi tra i rappresentanti di Israele, Stati Uniti, Qatar ed Egitto si è raggiunta un’intesa “su quali sarebbero i contorni di base di un accordo sugli ostaggi e per un cessate il fuoco temporaneo”. Un passo in avanti confermato pure da fonti israeliane, anche se altri funzionari hanno espresso cautela riguardo i negoziati in corso. Ieri, a Doha, oltre agli incontri tra esperti dei Paesi coinvolti nelle trattative, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani ha ricevuto il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh. L’agenzia Qna ha spiegato che il vertice nel piccolo Paese arabo è servito a discutere sugli “sforzi del Qatar volti a raggiungere un accordo per un cessate il fuoco immediato e duraturo nella Striscia di Gaza”. Da parte di Hanyeh, tra le righe delle dichiarazioni e minacce di routine contro lo Stato ebraico, ci sono stati timidi segnali di apertura.

“Il movimento ha risposto agli sforzi dei fratelli mediatori, ha accettato il corso dei negoziati per fermare l’aggressione e ha mostrato grande serietà e flessibilità, ma ritiene che il nemico sionista stia prendendo tempo”, si legge in un comunicato su Telegram di Hamas riportato da Agi. Una dichiarazione che non sembra chiudere a un prossimo accordo, che gli Stati Uniti vorrebbero che giungesse prima dell’inizio del Ramadan, mese sacro per i musulmani e potenziale periodo di tensioni anche sul fronte interno, specialmente a Gerusalemme e in Cisgiordania. Lì dove ieri si è dimesso il primo ministro dell’Anp, Mohammad Shtayyeh, insieme al suo governo. Secondo i media internazionali, dietro questa scelta del premier vi sarebbero sia la mano del presidente, Mahmoud Abbas, sia (se non soprattutto) le pressioni internazionali. Da tempo Washington considera l’Anp un’istituzione da rifondare per renderla un interlocutore credibile per il prossimo futuro. E questa mossa della politica palestinese potrebbe essere il primo passo verso un nuovo modello di autorità che possa valere anche per il dopoguerra della Striscia di Gaza.

Intanto, mentre continuano i negoziati e mentre proseguono le operazioni militari nell’exclave palestinese, in Libano si registra una nuova aria di tensione. Ieri un drone delle forze armate israeliane è stato abbattuto nel sud del Libano dai miliziani di Hezbollah. L’aviazione dello Stato ebraico ha risposto colpendo per la prima volta nell’est del Paese dei cedri, alla periferia di Baalbek, nella valle della Bekaa. Un’area che dall’inizio dell’escalation dopo il 7 ottobre non era mai stata colpita dai bombardamenti delle forze aeree israeliane. Hezbollah ha risposto agli attacchi dicendo di avere lanciato 60 razzi Katyusha contro una base militare nemica a Nafah, nel Golan. E questo nuovo scambio di missili e raid tra Israele e Libano conferma che l’allargamento del conflitto sul “fronte settentrionale” è uno scenario che continua a preoccupare intelligence e diplomazia.