Le parole con cui il ministro israeliano delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha bollato la questione ostaggi (“non è la cosa più importante”) non sono piaciute a molti nello Stato ebraico. Benny Gantz, ex generale e leader dell’opposizione centrista, ha già risposto a quelle affermazioni dicendo che “il ritorno degli ostaggi non è solo il nostro obiettivo della guerra, è un imperativo morale come Paese e come popolo”, ribadendo che la liberazione dei rapiti “è la cosa più urgente, e non perderemo nessuna occasione per riportarli a casa”.

Dello stesso avviso Yair Lapid, altro oppositore dell’esecutivo ma che a differenza di Gantz non è entrato nel governo di emergenza. “Ad Hamas non importa se la sua gente viene uccisa, ma noi faremo praticamente qualsiasi cosa per garantire che i nostri figli e i nostri genitori tornino a casa” ha sentenziato Lapid. Poi, ieri, è arrivato anche il commento del presidente israeliano, Isaac Herzog, che ha sostanzialmente definito il discorso di Smotrich “molto irrispettoso”. “Si può discutere sul modo in cui raggiungere l’obiettivo, ma invito l’opinione pubblica e soprattutto i funzionari eletti a tenere conto dei sentimenti delle famiglie degli ostaggi” ha avvertito Herzog. E questo messaggio è stato un modo anche per tendere la mano ai molti parenti delle vittime che da mesi protestano per chiedere a tutti i costi la liberazione delle persone che dal 7 ottobre sono nelle mani di Hamas.

La fine dell’incubo, in questo momento, appare di difficile realizzazione. E questo perché il negoziato tra le parti, negli ultimi giorni, si è complicato. Ieri in Israele si è dibattuto sulle possibilità che il governo inviasse ancora una volta una delegazione in Egitto per riprendere i colloqui che si sono nella sostanza interrotti. Ma se in molti dubitano delle reali capacità di questo round di trattative, ieri è stato lo stesso Gantz a inviare un primo segnale di cauto ottimismo. “Ci sono i primi segnali di progresso verso un nuovo accordo sugli ostaggi”, ha detto il membro del gabinetto di sicurezza. Ma nella stessa dichiarazione, ha anche avvertito sulla prossima operazione militare a Rafah che, a suo dire, “inizierà dopo l’evacuazione della popolazione dalla zona”.

Elemento considerato prioritario soprattutto da Washington, che ha preteso dei piani per evitare una catastrofe umanitaria. Se questi temi dividono l’opinione pubblica israeliana e la sua politica, ieri c’è stato però anche un importante segno di compattezza. Ed è un indizio interessante anche sotto il profilo diplomatico. Alla Knesset, il Parlamento israeliano, 99 deputati su 120 hanno votato a favore di una risoluzione che condivide la linea del governo sull’impossibilità di accettare uno Stato palestinese riconosciuto unilateralmente dalla comunità internazionale. “La Knesset si è unita con un’ampia maggioranza contro il tentativo di imporci la creazione di uno Stato palestinese e il voto invia un messaggio chiaro alla comunità internazionale: il riconoscimento unilaterale non avvicinerà la pace, ma la allontanerà ulteriormente” ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu.

Che forse per la prima volta in questa difficile fase della guerra ha visto quasi tutte le forze politiche appoggiare una sua decisione diplomatica (nove soli i voti contrari, tra cui quello del deputato israelo-palestinese Ahmed Tibi). Nel testo approvato dai parlamentari israeliani è stato scritto che il riconoscimento dello Stato palestinese dopo il 7 ottobre “significherebbe un’enorme ricompensa per il terrorismo e impedirebbe qualsiasi futuro accordo di pace”. E questa risoluzione arriva non solo dopo le numerose pressioni del mondo sulla necessità di una soluzione dei due Stati, ma anche dopo le rivelazioni dei media Usa riguardo il piano di Washington e dei suoi maggiori alleati arabi per un accordo di pace che preveda anche tempistiche chiare nella creazione di uno Stato palestinese. Israele ha così mandato un messaggio trasversale: anche nei confronti degli alleati.