Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha un’idea per il dopoguerra nella Striscia di Gaza, e lo ha chiarito anche ai membri del suo governo attraverso un documento cui hanno avuto accesso i media locali. Il piano di Bibi prevede una completa demilitarizzazione dell’exclave palestinese, con l’inevitabile fine di Hamas, il controllo della sicurezza da parte delle forze armate israeliane senza limiti di tempo, in particolare anche del confine con l’Egitto, la ricostruzione ad opera di Paesi arabi ritenuti “accettabili” da Israele, una futura amministrazione nelle mani di funzionari locali senza alcun legame con Paesi ritenuti sponsor del terrorismo e lo stop ai lavori dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa.

Sotto diversi profili, non si tratta di nulla di diverso rispetto a quanto affermato già dallo stesso Netanyahu in numerose dichiarazioni pubbliche. E anche l’assenza di dettagli pratici sulla realizzazione lascia spazio a molteplici interpretazioni su come possa essere reso concreto un piano al momento fatto di principi-guida. Tuttavia quello che sottolineano molti osservatori sono due dati. Il primo riguarda una novità evidente: che il governo dello Stato ebraico ha presentato un piano scritto, anche se di massima, sul “day after” della guerra a Gaza. Segno che il premier forse vuole anche rassicurare la sua maggioranza. Il secondo elemento è che gli stessi media israeliani sottolineano che il testo è la base di un futuro negoziato. Dunque c’è un’apertura riguardo a possibili controproposte da parte della comunità internazionale, sia dei Paesi arabi coinvolti che degli stessi Stati Uniti.

Certo, di fronte a questi segnali non mancano punti interrogativi né indizi di feroci scontri in sede diplomatica, a partire dal rifiuto del riconoscimento dello Stato palestinese fino all’assenza di un’indicazione riguardo il ruolo dell’Autorità palestinese (elementi ritenuti prioritari dall’amministrazione Biden). E proprio per questo, l’Anp ha già respinto al mittente il progetto del primo ministro ritenendolo un modo per impedire la nascita di uno Stato di Palestina. Ma se la risposta di Ramallah era inevitabile in questi termini, ora quello che ci si domanda è come possa attivarsi questo piano e quali sono le tempistiche. E su questi punti, una vera risposta non potrà che arrivare dalla conduzione della guerra.

Le Israel defense forces continuano le loro operazioni all’interno della Striscia di Gaza in attesa di capire quando (e se) sarà avviata l’attesa offensiva sulla città di Rafah. Nei giorni scorsi il ministro della Difesa, Yoav Gallant, aveva assicurato che le Tsahal si stavano preparando a intensificare le operazioni terrestri, inviando quindi un chiaro segnale sia ad Hamas che ai partner dello Stato ebraico. Ma al netto dei caveat di Washington e di altri alleati di Israele, è chiaro che se l’obiettivo è quello di distruggere Hamas, per il governo di Israele sarà necessario passare a Rafah, dove sono asserragliati i miliziani insieme a circa un milione e mezzo di profughi. Su questo fronte, l’attesa è rivolta anche ai colloqui in corso Parigi: un round dove Netanyahu – dopo l’intenso pressing degli inviati Usa – ha deciso di mandare una delegazione composta dal capo del Mossad, David Barnea, e dal capo dello Shin Bet, Ronen Bar. Nella capitale francese, dove ci sono anche il capo della Cia, il premier del Qatar e il capo dell’intelligence egiziana, si respira un cauto ottimismo. Ma la strada dell’accordo appare in salita, soprattutto perché Hamas pretende il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia. E con il progetto di Netanyahu per il dopoguerra sullo sfondo, il dialogo tra le parti può complicarsi. Intanto, mentre in Cisgiordania si alza la tensione (Israele prevede di costruire altre 3300 case per i coloni contraddicendo anche gli avvertimenti Usa), lo Stato ebraico manda segnali anche a Hezbollah: un’esercitazione navale che “immagina” un possibile conflitto sul fronte nord.