Il racconto
Il viaggio in Israele dopo il 7 ottobre: non è più la stessa guerra, non è più lo stesso paese
Siamo partiti, parlamentari e giornalisti, prima di tutto per portare la nostra solidarietà rispetto a un evento tragico, sconvolgente, che in Israele non esitano a definire un nuovo olocausto
Tutto è cambiato: non è più la stessa guerra, non è più lo stesso paese.
È questa la consapevolezza che ti raggiunge quando arrivi in Israele, ti avvolge mentre ripercorri i tragici momenti del 7 ottobre e ciò che ne sta seguendo, ti rimane addosso quando torni in Italia.
Siamo partiti domenica 3 dicembre in quattro parlamentari italiani e una delegazione di giornalisti, prima di tutto per portare la nostra solidarietà rispetto a un evento tragico, sconvolgente, che in Israele non esitano a definire un “nuovo olocausto”. Per capire meglio cosa sia realmente successo e come questa spirale di morte e di violenza possa essere spezzata anche con l’aiuto degli stati Europei. Con noi alcuni parlamentari di Germania, Croazia, Polonia, Lituania e Cipro. Per chi di noi già conosceva Israele e l’animo degli Israeliani è stato subito evidente che qualcosa di grosso è cambiato, per sempre.
Non vi è traccia evidente delle profonde divisioni politiche che attraversavano il paese prima del 7 ottobre e delle contestazioni verso il governo Netanyahu: esistono ancora tutte, naturalmente, ma si capisce chiaramente che non sono semplicemente state poste in secondo piano da questa nuova guerra, ma che non sono nemmeno in relazione diretta con le cause percepite e il tipo di minaccia rappresentato da questa guerra, il che rappresenta una prima importante informazione per noi che siamo lì per capire anche come portare il nostro aiuto.
È visitando i luoghi del nuovo “pogrom” che in un solo giorno ha “prodotto” 1400 morti ebrei, il numero maggiore dall’olocausto, ascoltando e riascoltando i fatti dai militari, dai riservisti, dai politici, dai funzionari, dai parenti dei rapiti, dai genitori dei giovani uccisi, dai cittadini che a Tel Aviv portano avanti la loro vita, che si trova quel sentimento comune su cosa stia accadendo e cosa rappresenti per ciascuno di loro e cosa quindi debba rappresentare per noi Europei, così siamo visti in questo viaggio, che diciamo di essere solidali e vogliamo con loro trovare una soluzione.
E questi fatti sono sconvolgenti e determinano ogni pensiero e ogni azione: fino al giorno prima era per tutti inimmaginabile che da Gaza potesse uscire un solo suv con dei terroristi armati diretti verso i Kibbutz israeliani, luoghi di pace e vita sociale in cui lavorano palestinesi di Gaza e in cui si progetta un futuro insieme. Il 7 ottobre da Gaza sono uscite migliaia di macchine, circa 3-4 mila macchine con forze armate di Hamas, la Nukhba, forze “leggere” di Hamas e anche 2mila palestinesi dei 18mila che lavoravano in Israele, bucando 15 postazioni lungo i 65 km di barriere di Gaza oltre alle vie di mare ed aeree. Un primo incredibile Shock.
Migliaia di uomini armati, tra cui qualche lavoratore fino al giorno prima ritenuto amico, entrati per trucidare 365 persone ad un festival musicale e altre centinaia di persone nei Kibbutz.
Tutto questo è avvenuto mentre da Gaza piovevano razzi, ad oggi se ne contano oltre 150mila, e mentre vi erano chiari segnali, tra cui lanci di missili dal Libano, di un possibile attacco da Nord da parte di Hezbollah.
Nella città di Sderot, 3 km dal confine con Gaza, i terroristi hanno ucciso a sangue freddo civili e assaltato la stazione di polizia: è lì che apprendiamo che dai piani rinvenuti nei corpi dei terroristi uccisi, dalla volontà di prendere la stazione, dall’espansione dell’area occupata dagli assalti sincronizzati, vi era un’evidente volontà di collegarsi con la Cisgiordania e provocare l’insurrezione anche del West Bank. Questo, riflessione nostra, è l’unico vero punto di contatto con il conflitto israelo-palestinese come lo abbiamo conosciuto fin qua e con le proteste nel paese contro il governo Netanyahu: aver creato la possibilità ad Hamas di attecchire anche in Cisgiordania. Laddove un noto sondaggio ci mostra che Hamas non è ben vista dai palestinesi di Gaza che ritengono che non faccia minimamente gli interessi dei palestinesi. E ora gli Israeliani si interrogano amaramente su come abbiano potuto pensare che lasciare ad Hamas il governo di Gaza, andarsene dal 2005, lasciare che un fiume di soldi arrivasse a Gaza nella speranza che quell’autonomia trovasse un suo equilibrio, potesse creare una stabilità positiva.
Queste riflessioni sono ora sovrastate da un pericolo maggiore: Israele ha rischiato di essere invasa fin nelle sue principali città e lo rischia ogni giorno oggi. Vi è la chiara consapevolezza che solo la deterrenza di paesi amici lo sta impedendo.
Come se non bastasse questa situazione militare, vi è l’orrore dell’eccidio, le modalità disumane con cui è stato perpetrato, e il dolore dei rapiti, segregati nei tunnel e assoggettati a indicibili sofferenze. Orrore che visitando i resti delle auto al concerto, fatte esplodere, bruciate e crivellate di colpi, auto da cui a volte non è stato possibile estrarre i cadaveri carbonizzati e fusi con la carrozzeria, entrando nei Kibbutz dove rimane una persona che trova il coraggio di accoglierci per raccontarci quelle tragiche 36 ore, emerge e ti avvolge inevitabilmente.
Gli Israeliani sentono di non avere alternativa. Non è un sentimento che abbia nulla a che vedere con la vendetta, come alcuni sono portati a pensare, ma con il dovere di sopravvivere. È questa situazione che pone di fronte a loro un’unica strada, fatta di tre tappe: liberare gli ostaggi, tutti gli ostaggi; eliminare il pericolo di Hamas; creare le condizioni perché questa minaccia esistenziale non ci sia più e per un futuro di pace.
Non è possibile in quella situazione vedere altra strada: ogni esitazione può significare la morte e un completo nuovo olocausto. Queste ultime parole non vengono mai pronunciate, ma aleggiano come spettri. E nel rivolgersi a noi, in un continuo e costante rapporto di franchezza e amicizia, colpisce che non tanto e solo i militari e i politici, ma i familiari dei rapiti, gente semplice che prima di tutto ti dice: “io faccio l’educatrice, non posso sapere nulla di tattica militare” senta il dovere di ammonirci: “svegliatevi, i prossimi siete voi”.
Sullo sfondo del Kibbutz si staglia Gaza. Sotto i colpi dell’artiglieria pesante che la martellano. E altri innocenti muoiono. La comunità internazionale potrà impedire orrori maggiori solo sapendo intervenire con fermezza, ma soprattutto consapevolezza. Per questo abbiamo pensato e pensiamo che sia estremamente pericolosa la rimozione del 7 ottobre 2023 dal dibattito pubblico. Immagini così atroci che non si possono diffondere, ma che sarebbe estremamente ipocrita e pericoloso rimuovere.
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