All’alba di mercoledì 17 febbraio, nel carcere di Rajaei Shahr, a Karaj città che dista una ventina di chilometri da Teheran, è accaduto qualche cosa di inimmaginabile. Una donna, Zahra Esmaili, ha avuto un attacco di cuore dopo aver assistito all’impiccagione di un gruppo di uomini. C’è chi parla di sei, altre fonti riferiscono di 8, altre ancora di 16. Fatto sta che uno dopo l’altro sono stati giustiziati mentre lei aspettava il suo turno per salire sul patibolo. Il suo cuore non ha retto. È crollata. Il verdetto è stato però eseguito lo stesso. Il capo della donna è stato infilato nel cappio ed il suo corpo, ormai morto, fatto penzolare dalla corda. Secondo l’avvocato Omid Moradi infatti il certificato ufficiale attesta come causa del decesso l’arresto cardiaco.

Ad aggiungere ulteriore ribrezzo c’è un altro dettaglio raccontato sempre dall’avvocato. Quello per cui Fatemeh Asal-Mahi, la madre della vittima, avrebbe preso personalmente a calci lo sgabello da sotto i suoi piedi in modo da poter vedere il cadavere di sua nuora pendere dalla forca, anche se per pochi secondi. L’avvocato ha anche raccontato che Zahra Esmaili, aveva 42 anni e due figli ed era stata condannata a morte per l’omicidio del marito, Alireza Zaman, un alto funzionario del Ministero dell’Intelligence. In realtà l’omicidio lo avrebbe confessato per salvare la figlia adolescente. Sarebbe stata lei infatti a sparare al padre che picchiava e maltrattava regolarmente sia la moglie che i figli. Portava a casa donne sotto i loro occhi. Aveva persino minacciato di uccidere la moglie e aveva tentato di violentare la figlia.

Dall’inferno di casa, Zahra Esmaili, si era così ritrovata nell’inferno del carcere. Perché la sua pena l’ha scontata nel famigerato istituto penitenziario femminile di Qarchak dove sono stipate assieme circa 2000 donne che siano detenute per ragioni politiche o per reati d’altra natura, che siano condannate definitive o in attesa di giudizio, che siano giovani o anziane. I letti non bastano per tutte e le detenute sono costrette a dormire per terra. Ci sono descrizioni di celle di 9 metri quadri con 11 detenute. Acquitrini e paludi circondano questo carcere infestato così da ratti e insetti. Per ogni 100 detenute ci sono 10 toilette ma di queste ne funzionano tre, ben che vada quattro. Secondo alcuni rapporti, le detenute subiscono ogni forma di tortura, compreso lo stupro. Chi si lamenta o protesta per le condizioni inumane e degradanti viene spedito all’isolamento. Le condizioni sono tali che la minaccia di trasferimento a Qarchak è usata spesso come mezzo di pressione nei confronti delle detenute politiche secondo Iran – Human Rights Monitor. Insomma una realtà che molti di noi riterrebbero plausibile solo in un film dell’orrore.

Il 15 febbraio, Zahra Esmaili era stata trasferita da questo penitenziario nella sezione di isolamento a Rajaei Shahr, insieme ad altri dieci condannati a morte. La consuetudine iraniana vuole che gli ultimi giorni di un condannato a morte siano trascorsi in isolamento. Zahra Esmaili aveva così trascorso le sue ultime ore a Rajaei Shahr, chiamato anche Gohardasht, una galera altrettanto infausta se penso che qui sono avvenute gran parte delle esecuzioni di massa del 1988 quando oltre 30.000 prigionieri politici appartenenti ai mojaheddin del popolo iraniano sono stati giustiziati nel giro di pochi giorni dal regime dei Mullah. Lo stesso regime che pochi giorni fa ha impiccato Zahra Esmaili nonostante fosse già morta, portando a 114 il numero di donne giustiziate sotto la Presidenza Rouhani, cioè dall’estate del 2013. È una cifra impressionante.

Come impressionante è il fatto che in Iran la discriminazione di genere assuma forme parossistiche: nei procedimenti legali, la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo e la versione iraniana del “prezzo del sangue” stabilisce che per una vittima donna esso sia la metà di quello di un uomo. Se uccide una donna, un uomo non potrà essere giustiziato, anche se condannato a morte, senza che la famiglia della donna abbia prima pagato a quella dell’assassino la metà del suo “prezzo del sangue”. E poi, l’età minima per la responsabilità penale è di poco meno di nove anni per le donne, di poco meno di 15 anni per gli uomini.

Lo stupro coniugale e la violenza domestica non sono considerati reati penali. Tutto questo deve indurci ad impegnarci per liberare l’Iran da un regime misogino e sanguinario. A non dare la nostra condizione di vita, per quello che di buono ha, per scontata. A riconsiderare le priorità nelle relazioni bilaterali e multilaterali con l’Iran, ponendo al primo punto, sempre e comunque, il rispetto dei diritti umani.