Si dice spesso che se la gente visitasse un allevamento di animali – porci, vacche, tacchini, uno qualsiasi – diminuirebbe il consumo di carne perché lo spettacolo di quella costrizione fa disgustosa anche la sola idea di ingurgitarne le vittime. E magari i visitatori di quelle anticamere di carnaio non si trasformerebbero tutti in animalisti militanti, ma appunto a molti di loro repugnerebbe di lì in poi di nutrirsi ancora di quegli esseri tenuti in vita il tanto che basta a diventare l’alimento altrui.

Non sono sicuro che un’analoga rivolta sentimentale si registrerebbe se anziché di bestiame si trattasse di esseri umani detenuti, e se dunque la visita fosse organizzata in un carcere piuttosto che in un macello. Non sarebbe meno istruttiva, a cominciare dal fatto che le condizioni di igiene e sicurezza normalmente assicurate nelle prigioni per umani sono mediamente più blande rispetto a quelle che una legislazione assai più protettiva impone a chi tratta animali.

E si potrà dire che i detenuti non sono destinati al macello, ma l’obiezione non calza e anzi dimostra l’appropriatezza del paragone: essi non hanno l’utilità delle bestie, servono tutt’al più a placare la fame tutta diversa di una società che crede di trovare nutrimento risarcitorio in quella segregazione, ma non c’è rischio che diventino cibo velenoso o indigesto e dunque sono per loro superflui i protocolli di garanzia che assistono la salute della scrofa o del bue. Ora io non ricordo esattamente quanti fossero i cinghiali finiti nel Naviglio milanese qualche settimana fa, o quelli abbattuti più recentemente in un giardinetto romano.

Erano tuttavia meno di tredici, che è il numero dei detenuti morti in un solo giorno del marzo scorso senza che la cosa abbia smosso un centesimo dell’attenzione – che, per carità, va benissimo – invece dedicata alla triste fine di quei mammiferi. Una cerva imprigionata nel ghiaccio d’un lago o una femmina di leone salvata dal filo di ferro che sta soffocandola raccolgono la simpatia telematica di milioni di like, ma se non c’è niente di simile per il detenuto torquato del laccio che lo impicca non è perché un residuo di rispetto impedisce di fotografarlo: è perché non gliene frega niente a nessuno.

Non so se avesse ragione Marguerite Yourcenar quando scriveva che ci sarebbero stati meno bambini martiri e meno vagoni piombati se non avessimo fatto l’abitudine ai furgoni pieni di animali condotti al macello. La realtà è che la produzione di detenuti costituisce un’industria a cui siamo tanto più abituati quanto più ci abituiamo a vergognarci di quella della produzione animale. E mentre reclamare l’abolizione degli allevamenti non è ancora maggioritario ma è già socialmente accettabile, vagheggiare la fine del carcere è semplicemente bestemmia. Forse vale l’opposto, allora: assisteremmo a meno crudeltà negli allevamenti se non assistessimo senza perplessità a quella nelle galere. E mangeremmo forse meno animali se non fossimo abituati a sfamare i nostri desideri di giustizia con la detenzione altrui.