Parla l'esperta di edilizia penitenziaria
Intervista a Marella Santangelo: “Carceri e poliziotti sono allo stremo, è ora di darsi da fare”
«Il video? All’inizio non riuscivo a guardarlo. Le notizie sui fatti di Santa Maria Capua Vetere sono molto dolorose». Marella Santangelo è ordinario di Composizione architettonica e urbana presso l’università Federico II, delegato del rettore al polo universitario penitenziario e componente della Commissione per l’architettura penitenziaria voluta dal Ministero della Giustizia. Da anni dedica il suo impegno e le sue competenze professionali allo studio e alla realizzazione di uno spazio della pena più vivibile, più umano, più in linea con quello che prevede la Costituzione. Uno spazio, insomma, molto diverso da quello che sono attualmente gli istituti di pena.
I fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno dimostrato che non si può più glissare sulla questione carcere, che non la si può relegare a problema di serie B. «Il tema – osserva la professoressa Santangelo – è soprattutto culturale. C’è bisogno di una diversa consapevolezza dello Stato, affinché consideri le condizioni in cui i detenuti vivono e gli agenti penitenziari lavorano e investa di più nella loro formazione». «Inoltre – aggiunge la docente – occorre assumere più personale. Lavorare in sottorganico è difficile in tutti i settori, in una realtà come quella carceraria dove il numero dei detenuti è superiore a quello previsto, diventa più che mai un problema grave. Gli agenti fanno turni pesanti e lavorano in ambienti che hanno le stesse caratteristiche e lo stesso livello di desolazione degli spazi destinati ai detenuti».
«Questo ovviamente – precisa Santangelo – non ha nulla a che vedere con quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere, evento di gravità inaudita rispetto al quale vanno adottati tutti i provvedimenti necessari per punire chi ha commesso le violenze, come chi è stato connivente. Ma, come ha sottolineato anche la ministra Marta Cartabia, è un evento che deve far riflettere perché è la spia di un problema più grande. Come accaduto per i fatti della scuola Diaz, deve diventare un momento di riflessione collettiva». «L’università intanto continua a investire molto sotto vari punti di vista per garantire ai detenuti il diritto allo studio – spiega – A giorni ci sarà l’interpello nazionale per i poli universitari della Federico II e probabilmente sarà ampliata l’offerta dei corsi di laurea». Quanto alla Commissione ministeriale per l’architettura penitenziaria, il 31 luglio saranno presentate le linee guida per una nuova concezione dello spazio carcerario: «Bisogna creare condizioni dignitose». Il cambiamento, dunque, è quanto mai necessario. «Mai come in questo momento i detenuti non vanno abbandonati e non vanno abbandonati il personale e la polizia. Il carcere – conclude Santangelo – è fatto di tante persone operose. Cambiare è ancora possibile, basta ritornare alla nostra Costituzione: serve un segnale forte da parte dello Stato».
Anche la Conferenza nazionale dei poli universitari penitenziari è intervenuta sulla questione carcere alla luce dei fatti di Santa Maria Capua Vetere e gli atenei impegnati nelle carceri si sono dette disponibili a offrire il proprio contributo scientifico e culturale. «Serve una grande rivoluzione culturale – sostengono – che investa tutta la società e chi professionalmente opera in quei contesti (in primis gli appartenenti alla polizia penitenziaria la cui formazione va profondamente ripensata) sul significato delle pene e sulle modalità di esercizio dell’esecuzione penale che abbiano alla base il rifiuto di violenze e sopraffazioni». Le università, dunque, sono pronte a fare la propria parte. «Ma – spiegano – senza cambiamenti sul piano culturale e organizzativo il nostro impegno per gli studenti detenuti, come quello di tante espressioni delle comunità locali e della società civile che in carcere operano, finisce per essere una goccia nel mare. Di più: consentendo che si rappresentino, spesso enfaticamente e retoricamente, iniziative come le nostre come punti di eccellenza, si rischia di occultare il funzionamento normale delle istituzioni penitenziarie, segnato troppe volte da problemi strutturali irrisolti e da logiche ispirate al mero contenimento».
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