Gli auspici “di assistere a una partita pacifica e competitiva” espressi dal portavoce del dipartimento di stato americano in vista della partita Iran-Usa decisiva per il gruppo B del mondiale in Qatar sono già messi in ombra dalle “minacce di arresto e tortura” ricevute dalle famiglie dei giocatori della squadra di calcio iraniana se “non si comporteranno bene prima del match”.

A scriverlo la Cnn, citando “una fonte coinvolta nella sicurezza del torneo”, in seguito al rifiuto dei ragazzi di Queiroz di cantare l’inno pochi minuti prima della partita di apertura contro l’Inghilterra del 21 novembre. La fonte ha detto che i giocatori sono stati convocati a un incontro con membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane. In quell’occasione sarebbe stato detto loro che le loro famiglie avrebbero affrontato “violenze e torture” se non avessero cantato l’inno nazionale o se avessero aderito a qualsiasi protesta politica contro il regime di Teheran.

Ventiquattro anni dopo la definizione tutta americana di “madre di tutte le partite” e la definizione, questa volta iraniana, di “vittoria contro Satana”, Iran-Usa vale il passaggio del turno: una vittoria potrebbe consentire alla squadra persiana di conquistare una qualificazione mai raggiunta, gli Stati Uniti vogliono riscattare l’assenza dal Mondiale di quattro anni fa e confermare la crescita del movimento.

Se non fosse di già pregnante importanza sportiva, nei giorni passati sul piatto ricco del prepartita si sono susseguite le dichiarazioni dell’ex inter ed ex coach della nazionale Usa Jurgen Klinsmann che parlando alla Bbc aveva accusato gli iraniani di “avere nella propria cultura” certi mezzi, come fare pressioni sull’arbitro. A far cadere altro peperoncino su un piatto già piccante di suo anche la federazione calcio statunitense che ha usato la bandiera dell’Iran senza i simboli della Repubblica islamica con l’intento, a loro dire, di “sostenere i diritti delle donne”.

I due c.t., l’irlandese-americano Gregg Berhalter e il portoghese nato in Mozambico Carlos Queiroz che ha incontrato separatamente gli ufficiali delle Guardie rivoluzionarie in seguito alle loro minacce e che ha dichiarato che i giocatori iraniani possono protestare ai Mondiali (solo nell’ambito dei regolamenti Fifa), cercano di proteggere i propri ragazzi per farli concentrare solo sulla partita. Un’impresa perché la situazione non è affatto tranquilla: gli attivisti presenti in Qatar denunciano di essere stati arrestati per aver mostrato maglie o striscioni con la scritta “Donne, vita, libertà” e alcune donne allo stadio hanno raccontato di essere state osservate da “sorveglianti” del regime che usano binocoli puntati sugli spalti. Si pensi che in Iran per le donne è vietato andare allo stadio.

Durante la conferenza stampa Queiroz, che riceve per tre volte gli applausi dei giornalisti iraniani, alla domanda se userà il caso-bandiera per motivare i suoi, risponde: “Se dopo 42 anni da allenatore pensassi ancora di servirmi di questi giochetti psicologici, vorrebbe dire che non ho imparato niente”, lasciando intendere che da parte degli Usa c’è stato un tentativo di destabilizzare l’ambiente. E prosegue: “Siamo solidali con tutte le cause umanitarie, i diritti umani, il razzismo, anche i bambini che muoiono nelle sparatorie a scuola” alludendo alle stragi con armi da fuoco che affliggono gli Usa.

Ai giocatori del Team Melli erano state promesse, ha detto la fonte, “regali e auto” prima della partita contro l’Inghilterra, ma il regime era passato a minacciare i giocatori e le loro famiglie dopo l’umiliazione del rifiuto della squadra di cantare l’inno nazionale. Nella seconda partita contro il Galles venerdì scorso, che ha visto la vittoria per 2-0 dell’Iran, c’è stata un’inversione di rotta e l’inno è stato cantato. “Il regime ha inviato centinaia di finti sostenitori per creare un falso senso di sostegno e per la prossima partita contro gli Stati Uniti, ha in programma di aumentare significativamente il numero di finti sostenitori a migliaia”, ha dichiarato la fonte. Decine di ufficiali delle Guardie rivoluzionarie sono impegnati a sorvegliare i giocatori iraniani che non sono autorizzati a socializzare al di fuori della squadra o incontrare stranieri. “C’è un gran numero di agenti di sicurezza iraniani in Qatar che raccolgono informazioni e monitorano i giocatori”.

Le pressioni politiche nel calcio sono di casa, soprattutto durante le grandi manifestazioni quando gli occhi del mondo sono puntati sul rettangolo verde.  Quando nell’autunno del ’56 scoppiò la rivoluzione ungherese, si diffuse la notizia che ‘Il Re della Grande Ungheria”, il bomber Ferenc Puskas era morto combattendo sulle barricate contro i carri armati sovietici. Per poche ore fu un eroe, un simbolo di libertà. Invece era a Vienna in tournée, lontano dagli spari. Lì fu raggiunto dalla moglie Ersebeth e dalla figlia Anik. Non rientrò a Budapest. L’ultimo gol per l’Ungheria lo aveva già segnato nella vittoria di qualche giorno prima contro l’Austria. Scelse prima l’Italia dove rimase per un anno e mezzo (a Bordighera dove ingrassò 15 chili, si dice perché “amava la nostra cucina”), ma anche perché Milan, Juve e Inter si sarebbero svenate per schierarlo anche se alla fine firmò per il Real Madrid. Un trasferimento con valenza politica, perché non fu semplice passare dall’Ungheria sovietizzata alla Spagna di Franco.

Altro capitolo nei mondiali del 1974 in Germania Occidentale. Il cammino dei ‘Leopardi’, l’allora Zaire campione d’Africa, oggi Repubblica Democratica del Congo, che con 8 punti conquistati nel girone finale diventò la prima squadra dell’Africa subsahariana a partecipare ad un’edizione dei Mondiali, guidati in panchina dallo jugoslavo della Macedonia del Nord, Blagoja Vidinic, saranno protagonisti di un episodio che resterà per sempre nella storia: una punizione assegnata al Brasile e invece battuta al contrario dal terzino destro Joseph Ilunga Mwepu. Per più di due decenni, tutti penseranno che quel giocatore non conoscesse il regolamento. La verità, invece, ma lo si scoprirà soltanto nel 2002, era molto diversa: quel pallone scagliato lontano contribuì a salvare la vita a lui e a tutta la squadra. Un gesto all’apparenza folle e senza senso ha il potere di far deconcentrare il verdeoro Rivelino, che calcerà poi sulla barriera la punizione. Il risultato non cambierà più fino al fischio finale. Brasile-Zaire si conclude 3-0, Jugoslavia e Scozia pareggiano e così i verdeoro passano il turno come secondi, mentre lo Zaire, ultimo con zero punti, 14 goal subiti e nessuno realizzato, saluta quello che resta fino ad oggi il suo unico mondiale. I suoi giocatori contro i campioni del Mondo avevano però appena ottenuto la vittoria più grande, avendo allontanato le ombre di morte dalla squadra fatte dal dittatore Mobutu prima della partita: “Se perderete con più di 3 goal di scarto contro il Brasile, nessuno di voi tornerà a casa vivo e non vedrete mai più le vostre famiglie”.

Usa 94. Nella prima partita del girone la Colombia affronta la Romania del capitano Hagi che immagina una partita tutta sua, portando la sua nazionale a vincere 3-1 e così per la Colombia di Andrés Escobar (il difensore voluto anche dal Milan, non il narcotrafficante) la seconda partita del gruppo A contro gli Stati Uniti padroni di casa divenne decisiva. Al 35’ su un cross al centro, Escobar andò per intercettare il passaggio e indirizzò il pallone nella sua porta. La partita finisce 2-1 e la Colombia è già fuori dal Mondiale. Passano 14 giorni e quando Humberto Muñoz Castro, guardaspalle dei fratelli Castaño, capi dei Los Pepes, gruppo che voleva prendere il potere in città dopo la morte del Padrino, gli puntò la mitragliatrice al corpo, gli chiese conto proprio di quell’autogol segnato a Pasadena. Così termina la vita di Andrés, ma se Pablo è oggi ricordato con quel misto di mitografia e ribrezzo che dedichiamo ai criminali, Andrés è ancora oggi per tutti un grande calciatore con un posto privilegiato nella storia del calcio.

Più vicino ai giorni nostri ciò che è successo alla nazionale della Corea del Nord nei mondiali di Sudafrica 2010. Inserita nel ‘girone della morte’, ha perso due a uno la prima partita contro il Brasile, ma riuscendo a bloccare i verdeoro sullo zero a zero fino a buona parte del secondo tempo e segnargli addirittura un gol negli ultimi minuti: quasi un’impresa. La seconda partita è stata un disastro: il Portogallo ha vinto sette a zero, approfittando di un atteggiamento tattico spericolato da parte della Corea. Con la terza partita è arrivata la terza sconfitta, tre a zero, stavolta contro la Costa d’Avorio. La prima partita non è stata trasmessa dalla televisione nordcoreana, come da prassi, ma la seconda, forte della buona prestazione mostrata all’esordio, è stata diffusa in diretta, per la prima volta nella storia del paese. Il governo non è stato felice di vedere la propria nazionale essere presa a pallonate dal Portogallo di Cristiano Ronaldo. Al ritorno dal Sudafrica, l’intera squadra – con l’eccezione dei due calciatori di origine giapponese corsi a Tokyo subito dopo l’ultima partita – è stata sottoposta a una strigliata lunga sei ore al Palazzo della Cultura del Popolo, da parte del ministro dello sport Pak Myong-chol e davanti a oltre quattrocento funzionari del governo, più altre centinaia di studenti e giornalisti locali. I giocatori sono stati accusati uno per uno dei loro errori, causa del fallimento della ‘lotta ideologica’ della Corea del Nord. I calciatori sarebbero stati poi costretti a denunciare pubblicamente il loro allenatore, Kim Jong-Hun, che è stato accusato di tradimento nei confronti del figlio di Kim Jong-Il, espulso dal partito dei lavoratori e costretto ai lavori forzati. “In passato, gli atleti e gli allenatori che non ottenevano buoni risultati venivano inviati nei campi di prigionia senza troppi complimenti, tutti”, dichiarò una fonte dell’intelligence al quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo.

Riccardo Annibali

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