La sorte degli ostaggi catturati da Hamas terrorizza l’opinione pubblica israeliana dal 7 ottobre. Un incubo soprattutto per le famiglie dei rapiti, che ogni giorno aspettano notizie dal governo sul destino dei propri cari e su un eventuale accordo per riaverli a casa. Un dramma nel dramma. Su cui ieri il Wall Street Journal ha lanciato un’inquietante indiscrezione: gli ostaggi in vita potrebbero essere solo 50. Un numero di molto inferiore rispetto ai 116 che al momento sono ancora ritenuti formalmente nelle mani delle fazioni palestinesi, pur non sapendo nello specifico a quale sorte siano andati incontro. Il numero, a detta dei funzionari sentiti dal Wsj, viene fuori da un incrocio di dati e considerazioni dell’Intelligence israeliana e di quella statunitense. “Sembra che ogni settimana sempre più ostaggi muoiano, siano in pericolo o si ammalino gravemente”, ha detto Hagai Levine, dell’equipe medica del Forum degli ostaggi.
Per Benjamin Netanyahu si tratta di una nuova tegola in un periodo in cui le pressioni interne ed esterne si fanno enormi.

Una miscela esplosiva di problemi

Il capo del governo, dopo le dimissioni di Benny Gantz, si trova a dover affrontare una miscela esplosiva di problemi. La guerra nella Striscia di Gaza non appare destinata a chiudersi nel breve termine. E le parole del portavoce delle Israel defense forces, Daniel Hagari, che ha ammesso che Hamas non può essere sconfitto ma sostituito, hanno aperto un’ulteriore spaccatura tra le gerarchie militari e il vertice politico israeliano. “Hamas è un’idea. Chi pensa che si possa farlo sparire sbaglia”, ha detto Hagari in un’intervista all’emittente Channel 13, e ha aggiunto che chi promette di eliminare l’organizzazione islamista “fuorvia l’opinione pubblica”, “getta sabbia negli occhi della gente”. E l’unica alternativa del governo, a detta del portavoce, è rimanere a Gaza. Senza specificare per quanto tempo. L’ufficio del primo ministro, senza perdere tempo, ha emesso una nota ricordando che il gabinetto di sicurezza “ha definito come uno degli obiettivi della guerra la distruzione delle capacità militari e di governo di Hamas” e che le forze armate israeliane sono “ovviamente impegnate in questo”. Tuttavia è ormai chiaro che tra l’esecutivo e le Tsahal non corra buon sangue.

Spazio alla destra radicale

Questo problema è solo l’ultimo di una serie di grane che hanno colpito i rapporti non certo idilliaci tra gli apparati di sicurezza dello Stato ebraico e il governo (e la maggioranza di governo) guidata da Netanyahu. Il premier lo sa, e sa anche che l’uscita di scena di Gantz e di Gadi Eisenkot ha lasciato spazio a una destra radicale tanto indispensabile per governare quanto bellicosa e difficile da gestire. E questo è un problema non solo per i rapporti con l’intelligence e l’esercito, ma anche per le relazioni con gli Stati Uniti. Joe Biden e la sua amministrazione non hanno mai lesinato critiche feroci all’ultradestra. E Netanyahu, preoccupato da una situazione che può diventare incandescente, ha strigliato i suoi alleati di governo chiedendo loro di calmarsi e interrompere le discussioni su “inutili beghe politiche”. “Siamo in guerra su diversi fronti e dobbiamo affrontare grandi sfide e decisioni difficili. Chiedo pertanto con forza che tutti i partner della coalizione si diano una calmata e siano all’altezza della situazione”, ha detto in un videomessaggio.

Problemi con gli Stati Uniti

La Casa Bianca appare sempre più frustrata. E le parole del portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby, che ha definito “sconcertante” il video con cui Netanyahu ha accusato gli Usa di avere negato le armi a Israele, è il segnale che i rapporti sono ai minimi termini. Bibi, inoltre, sa che in questo momento si fa sempre più urgente la risoluzione dell’altro punto interrogativo: la messa in sicurezza del fronte nord. Con decine di migliaia di sfollati in giro per Israele, il governo sa che deve raggiungere il prima possibile una soluzione per garantire che la parte settentrionale del paese si stabilizzi e che la minaccia di Hezbollah si fermi.

La minaccia contro Cipro

Per ora la guerra a bassa intensità non ha portato i risultati sperati. I militari e le comunità al nord continuano a essere sotto il costante fuoco della milizia sciita (ieri è stato di nuovo colpita con decine di razzi l’Alta Galilea). E dal canto loro, gli aerei e l’artiglieria israeliana bombardano da mesi il sud del Libano, tra raid a tappeto e chirurgici per eliminare le cellule nemiche e i loro comandanti. Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, giura di non volere una guerra aperta con Israele. Ma in questi giorni a tenere banco è anche la minaccia dei filoiraniani nei confronti di Cipro, che Nasrallah ha messo in guardia dal fornire basi supporto allo Stato ebraico in caso di conflitto. Per Nicosia, quelle di Hezbollah sono solo “insinuazioni”. Ma il portavoce dell’Ue per la politica estera, Peter Stano, ha avvertito la milizia: “L’Ue è Cipro e Cipro è l’Ue. Ogni minaccia contro un nostro Stato membro è una minaccia contro l’Unione europea”.