Appena le minacce di Donald Trump sono diventate reali, la rappresaglia di Xi Jinping non si è fatta attendere. Pechino ha risposto ai dazi americani con un’altra serie di dazi, calando la sua scure sul settore dell’auto, dell’energia, con un’indagine contro Google e con restrizioni all’export di metalli e metalloidi. Secondo molti esperti, la scelta della Cina potrebbe in realtà rivelarsi più che altro simbolica. Rispetto alla prima amministrazione trumpiana, quella di oggi vede due economie (quella americana e quella cinese) più sganciate tra di loro. E colpire alcuni settori, per quanto importanti nel panorama mondiale, appare poco indicativo del desiderio di scatenare una guerra all’industria statunitense.

Pechino ha fatto scattare dazi del 15% su carbone e gas naturale liquefatto importati dagli Stati Uniti e tariffe del 10% rivolte al greggio made in Usa, alle macchine agricole e alle auto di grossa cilindrata. La Cina ha anche deciso di aumentare i controlli su materiali fondamentali per determinati settori industriali, minerali critici quali tungsteno, tellurio, bismuto, molibdeno e indio. Ma gli analisti segnalano come le grandi aziende di auto americane non abbiano un grande mercato nella Repubblica popolare. Lo stesso vale per il gas naturale liquefatto, che è centrale per l’economia europea ma poco rilevante per il colosso asiatico, a sua volta ben alimentato dal gas russo, da quello iraniano e da quello esportato dalle monarchie del Golfo. Su questo sono compatti anche gli analisti sentiti dai grandi media Usa, che – più che puntare il dito sulla rappresaglia di Pechino, considerata una mossa più politica e attendista – danno l’impressione di aspettarsi altro da questa sfida lanciata da Trump e raccolta da Xi.

The Donald, d’altronde, è noto per voler raggiungere accordi forzando la mano nei vari tavoli di negoziato. Già ieri la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, aveva di fatto annunciato un colloquio tra il presidente Usa e il leader cinese proprio per discutere dei dazi. E questo è proprio ciò che cerca il tycoon: accordi cui si arriva non certo per vie diplomatiche, ma che diventano indispensabili per disinnescare bombe a orologeria per il commercio globale e l’ordine internazionale in senso lato.

Del resto, quella dei dazi non è solo una guerra commerciale, ma anche politica. E dal momento che Trump ha aperto diversi fronti, pure contro l’Europa, ora la Cina potrebbe anche pensare di poter giocare una partita diversa. La sua è stata una rappresaglia contenuta, per evitare troppi problemi alla stabilità globale. Ieri ha invocato l’intervento dell’Organizzazione mondiale del commercio, con un reclamo fatto “per difendere i propri diritti legittimi”, quasi a voler dare un quadro giuridico alla vicenda. E mentre Xi ha blindato i rapporti con i paesi del “Sud del mondo”, adesso Pechino potrebbe anche bussare di nuovo alle porte dell’Unione europea, l’altra vittima preferita del tycoon.

Ieri la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha nuovamente rilanciato sulla possibilità di “aumentare” le relazioni economiche tra la Ue e la Repubblica popolare. “Questo sarà un anno intenso per le nostre relazioni con la Cina – ha detto von der Leyen – Continueremo a ridurre i rischi delle nostre relazioni economiche, come abbiamo fatto negli ultimi anni. Ma c’è anche spazio per impegnarsi in modo costruttivo con la Cina e trovare soluzioni, nel reciproco interesse. E penso che si possano trovare accordi che potrebbero anche ampliare i nostri legami commerciali e di investimento”.

Un messaggio diretto non solo a Pechino, ma anche a Washington. Con i rapporti transatlantici dell’era Biden, Ue e Cina avevano allentato i loro legami. Ma se Trump continua a dettare nuove regole a suon di dazi e minacce, Bruxelles potrebbe ascoltare di nuovo le sirene orientali. Sirene che non tutti sono disposti a rifiutare tra i governi europei, anche se la Nato ha già messo in guardia sulla sfida strategica rappresentata dalla Cina.