L'editoriale
La globalizzazione resiste agli assalti. Il sovranismo è sconfitto, ma l’alternativa?

Quasi un decennio fa, i “dimenticati”, gli “invisibili” della globalizzazione balzarono alla ribalta della scena politica occidentale, prima con la Brexit (giugno 2016) e poi con l’elezione di Trump (novembre 2016). Il loro mandato, affidato alla destra protezionista, era chiaro: si trattava di invertire la globalizzazione per tornare al mondo pre-globalizzazione, guidato da politiche nazionali e da un’industria manifatturiera controllabile da governi nazionali sensibili alle esigenze locali.
Nonostante alcuni successi temporanei e fiammate elettorali che si sono accese anche altrove nel mondo – compresa l’Italia del Conte1 – le piattaforme politiche sovraniste si sono scontrate con i veri, imbattibili motori della globalizzazione: i mercati e i capitali. Sia i conservatori britannici con Liz Truss nel 2022, che Trump dopo il suo “liberation day”, hanno subito l’impatto durissimo dei mercati obbligazionari e hanno dovuto fare marcia indietro (Truss ha persino perso la carica di Primo Ministro). E, se per il Regno Unito si parlò di un ex impero in declino bloccato dai mercati neanche fosse un paese emergente, la retromarcia della prima potenza mondiale di fronte alla fuga di capitale ci mostra il vincolo ineluttabile e senza deroghe del mondo contemporaneo.
L’alternativa al sovranismo declinante
Quanto è accaduto e sta accadendo ci dice dunque che il sovranismo può essere dichiarato fallito nella sua missione storica. I sovranisti potranno continuare a governare e vincere elezioni fino a quando non emergerà un’alternativa, ma la loro strategia è ormai chiusa nel recinto delle culture wars, e l’assenza di respiro politico li espone costantemente a tentazioni autocratiche. Manca però l’alternativa al sovranismo declinante, che nascerà solo rispondendo a due domande cruciali: (i) come portare avanti la globalizzazione di fronte alla crescente superpotenza cinese? (ii) come creare una prospettiva diversa per coloro che la globalizzazione ha lasciato indietro, un elettorato cruciale in grado di influenzare significativamente il voto ad ogni latitudine?
Al momento non sembrano esserci risposte a queste due domande cruciali. La Cina oggi svolge il ruolo di superpotenza, ma questo non significa che il suo dominio sia ineluttabile. Nonostante sia competitiva, se non dominante, dal punto di vista tecnologico, a medio/lungo termine la Cina dovrà affrontare le conseguenze demografiche della politica del figlio unico e i potenziali problemi di governance di un sistema monopartitico. La cooperazione con Pechino – o l’idea stessa di governare il mondo insieme alla Cina – potrebbe sembrare eccessiva o in parte già sperimentata in maniera fallimentare, ma al momento il dato di fatto è che il “decoupling”, come abbiamo visto in questi giorni, rischia di danneggiare maggiormente l’Occidente che Pechino.
Il fallimento
Per quanto riguarda il secondo punto, l’elettorato MAGA finora ha respinto la “terza via” alla globalizzazione, immaginata su sistemi formativi capaci di creare posti di lavoro con maggiore valore aggiunto, lasciando al resto del mondo le catene di montaggio. Fallimento dovuto all’insufficiente attenzione all’istruzione delle governances occidentali, sia nella versione “paternalistica” del mondo centrista, che in quella assistenzialistica della “big society” di Biden, che ha provocato una storica impennata inflazionistica. In questo senso è al momento irrisolta la costruzione di una prospettiva non autodistruttiva per l’Occidente, che resta la condizione indispensabile per superare definitivamente l’ideologia sovranista. Senza risposte nuove a questi due nodi, le probabilità che una generazione di “sconfitti” resti determinante sulla scena politica occidentale – così come accadde un secolo fa tra le due guerre, con tutti i noti effetti nefasti – sono molto elevate.
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