Le stroncature
“La grande ambizione” di cancellare i riformisti, da Napolitano a Macaluso a Craxi, le figure scomparse nel film-fantapolitico di Segre e Germano
Lodi unanimi sul film che racconta il Berlinguer che non avete mai visto: sempre ridente e capace di sfidare da solo la modernità, Segre e Germano mischiano storia e fantasia
Il tripudio premeditato dovrebbe essere un reato, nel codice del cinema. Se esistesse, la sua comminazione non sarebbe infrequente. Su “La Grande Ambizione” di Andrea Segre, il trionfo preventivo è stato eclatante: la maggior parte delle lodi sono arrivate prima di vedere il film o da persone che hanno detto di non averlo visto. La prima proiezione era schedulata come cerimonia di apertura della Festa del Cinema di Roma. Al termine, tutti in piedi: sette lunghi minuti di applausi. Elly Schlein, senza aver visto neanche un minuto del film, dichiara: “Lo recupererò al più presto e voglio esprimere i miei complimenti al regista, al cast e a tutta la produzione per aver dedicato quest’opera a una figura straordinaria alla quale siamo molto legati”.
Il film da lodare a prescindere
Un copione già scritto, un film-manifesto di appartenenza. Da lodare a prescindere. Per darne un giudizio ponderato, incuriositi da tanti interminabili applausi (le pellicole premio Oscar ne ricevono, nei casi record, la metà: tre minuti) siamo andati a vederlo. Scegliendo un cinema che potesse accompagnarne adeguatamente il calore politico-culturale: l’iconico Nuovo Sacher di Nanni Moretti. Ci siamo predisposti a guardarlo con una premessa di metodo: il film come fatto artistico va slegato dal messaggio politico che rimane. Senza sottovalutare che l’interpretazione attoriale, frutto di scelte di casting e del progetto di scrittura, va valutata sulla duplice base del gradimento scenico – la piacevolezza recitativa – ma anche della fedeltà con cui il protagonista del film incarna quello della storia. Il film come fatto artistico è bello. È scorrevole, piacevolmente girato, attentamente studiato.
Germano bravo ma…
La regia di Andrea Segre ne esce bene. E pur rischiando di essere banali, diciamo anche noi che Elio Germano è indubitabilmente uno dei più grandi talenti del cinema italiano, per la sua generazione. E pazienza se Germano declina maluccio l’accento sardo (perché non è stato doppiato?) e se non sembra ricordare molto da vicino la prossemica, l’espressione facciale di Enrico Berlinguer. Quel che indispone è che Germano ride troppo. Ride sempre. Scherza. Stringe mani come fosse un politico di oggi. Non conserva quel rispettoso distacco che c’era una volta. Né i tratti caratteristici dell’austerità berlingueriana (parola che infatti nel film non compare). Abbiamo chiesto a chi Berlinguer lo ha frequentato da vivo, negli anni: “Mai visto ridere Enrico, aveva sempre una espressione più che seria, tirata, severa”, riporta l’ex Pci.
Fantapolitica
Questo detto, “La Grande Ambizione” che cos’è? Cosa vuole essere? Un’opera di fantasia, di fantapolitica, o una ricostruzione storica fedele? Nel primo caso va bene, avvertendo lo spettatore. Nel secondo caso non va bene per niente. Anzi, ci allarma. Perché sembra che “La Grande Ambizione” sia quella di cancellare dalla storia i riformisti. Quelli del Pci, i miglioristi, gli amendoliani, sono ignorati. Cancellati come per un’amnesia. Quelli del Psi, peggio ancora. Si racconta la fine degli anni Settanta, il centrosinistra, il compromesso storico, il rapimento Moro riuscendo nell’acrobatico, sperticato tentativo di omettere la parola “socialisti”, di non menzionare mai Bettino Craxi. Un esperimento storiografico estremo. Pericoloso. Perché se va raccontata la storia formidabile degli anni Settanta, del Berlinguer leader carismatico di un Pci in crisi di crescita, va fatto con il rispetto che i fatti pretendono.
Da Napolitano a Macaluso, le figure scomparse nel film
In sintesi: il Pci aveva un corpaccione centrale, berlingueriano. Che bilanciava la sinistra interna che andava da Ingrao a Cossutta e una “destra” riformista che vedeva al suo interno le figure più nobili della sinistra: un signore di nome Giorgio Napolitano – che nel film scompare – e un altro che si chiamava Emanuele Macaluso. Uno che si chiamava Giorgio Amendola, che nel film non esiste. Così come Umberto Ranieri e Gerardo Chiaromonte. Tutti spariti. Non pervenuti. E sì che di dirigenti Pci se ne vedono tanti: Umberto Terracini, Pietro Ingrao, Ugo Pecchioli, Antonio Tatò, Alessandro Natta, Gianni Cervetti (unico che poi orbiterà intorno a Napolitano), Luciano Barca, Nilde Iotti. Nel film ai filorussi – Cossutta su tutti – si contrappone il solo Enrico Berlinguer, eroe solitario. E quando rapiscono Moro, se nella realtà c’era un forte partito della trattativa, con Craxi e Pannella, nel film ci sono solo Berlinguer e Andreotti, uniti nella linea dura. Il film persegue una lettura storica parziale e a tratti amnesica, prova a dare a chi ricorda il contentino della sintesi e a chi non c’era, ai più giovani, un bignamino depurato dai fastidiosi riformisti. Quei rompiscatole sempre pronti a alzare il sopracciglio e contestare il pensiero ortodosso, incluse le opere impegnate che si rivelano impregnate, preferendo vedere le cose da vicino, dal vero. Anche quando gli altri stanno sette minuti ad applaudirle in piedi.
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