Qualche giorno fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel corso di una cerimonia a Ravenna, ha dato ufficialmente inizio alle celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri. Nel corso della serata l’attore Elio Germano ha letto l’ultimo canto della Divina Commedia, il trentatreesimo del Paradiso, là dove il sommo poeta, giunto al termine del viaggio oltremondano, si trova di fronte alla luce divina e, forte dell’intercessione che Bernardo ha appena chiesto a Maria, finalmente rivolge lo sguardo a Dio. Esistono versi che quasi si ha il timore di accostare tanto sono alti e completi, eppure proprio a causa della loro densità andrebbero ogni volta riavvicinati nel tentativo di farli nostri, anche per sottrarli alle bacheche polverose in cui possono rischiare di restare confinati.

In questo canto conclusivo Bernardo rende un estremo omaggio alla Vergine rievocando il mistero dell’Incarnazione e pregandola di intercedere presso Dio, affinché Dante possa attingere alla sua conoscenza. Egli, reduce dall’esperienza prima del male umano che i dannati scontano nelle tenebre infernali, poi dalla scoperta della faticosa volontà di ravvedimento delle anime impegnate nella commovente ascesa verso la vetta del Purgatorio, si sente inadeguato a descrivere ciò che ha provato, come se la vista dei beati in preghiera, con gli angeli volanti nell’immensità inaudita, lo avesse ammutolito, spingendolo a mettersi in ginocchio, chinando il capo rispetto a qualcosa di più grande e fuori dalle nostre categorie logiche, dalla stessa dimensione verbale che le contiene, fino al punto di paragonarsi a un neonato: «Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancora la lingua a la mammella».

Molti dei vecchi commentatori del capolavoro dantesco non esitarono a definire deludente il risultato che l’autore ottenne, specie nell’evocazione della Trinità, coi cerchi di tre colori riflessi l’uno nell’altro, il secondo dei quali teso a rappresentare attraverso l’effige umana il Cristo. Tuttavia persino Benedetto Croce, fra i censori più severi della cantica finale, fu costretto ad ammettere la paradossale forza di quello che per lui restò comunque un fallimento estetico.  Mentre invece così non è, dal momento che, lo dimostrò la tradizione esegetica successiva, la tensione espressiva, specie riguardo al trionfo terreno dell’ingiustizia, si scioglie come neve al sole senza perdere neppure un briciolo della sua quintessenza lirica.

Lo straordinario pellegrino, carico di lucida passione contemplativa, per evitare di smarrirsi nei meandri del suo stesso intelletto, decide con deliberata spinta emotiva di non allontanare lo sguardo dalla “luce etterna” nella strenua volontà di penetrarne la matrice primaria. Ed ecco quello che ne ricava: «Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna: / sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme, per tal modo /che ciò ch’io dico è un semplice lume. / La forma universal di questo nodo / credo ch’io vidi, perché più di largo, / dicendo questo, mi sento ch’i’ godo». (vv. 85-93). Dante non è un mistico. Non chiude gli occhi di fronte alla realtà, contando di comprenderla meglio senza interpretarla. Ma neppure ritiene di potersi affidare unicamente alla ragione. Come aveva già mirabilmente sentenziato, rispondendo a Pietro nel XXIV canto, «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi; /e questa pare a me sua quiditate».

In mancanza di un atto di volizione individuale, non possiamo accedere alla percezione di Dio. Anche in questa drammatica tensione conoscitiva il padre della lingua italiana, per conseguenza anche il custode più autentico del nostro pensiero, di cui conserva le chiavi, resta vigile al cospetto dell’indicibile. Ciò che nel mondo sembra disarticolato e noi moderni potremmo definire privo di senso (si squaderna), d’improvviso gli appare raccolto (s’interna) e unito tutto insieme (in un volume). Con il linguaggio della filosofia subito riformula, quasi a conferma di ciò che ha appena scritto, il precedente assunto: sustanza è ciò che basta a se stesso, accidente la forma non necessaria, costume il rapporto fra l’una e l’altra.

Dante si era sempre chiesto quale potesse essere il fondamento del male: qui finalmente lo vede indissolubilmente intrecciato al bene. Come scrisse Umberto Bosco, uno dei suoi maggiori interpreti anche ad uso scolastico: «Se l’amore di Dio regge l’ordine del mondo, anche le ingiustizie e i mali di cui gli uomini sono quotidiani testimoni e vittime – e vittima inconsapevole è egli stesso, il poeta – non solo si dissolvono nella superiore giustizia oltremondana, ma anche si spiegano nell’economia generale del mondo dei viventi». Così scopriamo l’energia che ci alimenta e sostiene: «L’amor che move il sole e l’altre stelle».

Ecco il finale del grande poema, la sua conclusione decisiva e sempre viva ad ogni nuova lettura. La fede dantesca (Credo ch’io vidi) nella suprema totalità del cosmo non deriva da una visione, bensì da una scelta etica che non annichilisce il libero arbitrio. Per questo è per lui fonte di gioia.