Gli ultimi 12 mesi del regime violento di Lukashenko
La lotta dei bielorussi, ma li abbiamo lasciati soli

Il primo agosto sarebbe stato il compleanno di Raman Bandarenka. Il giovane artista e attivista bielorusso avrebbe compiuto 32 anni, se non fosse stato brutalmente picchiato da agenti mai identificati la sera dell’11 novembre 2020 a Minsk, per poi morire in ospedale il giorno successivo, con il corpo fasciato e ricoperto di lividi e abrasioni. Parto proprio dalla sua morte per raccontare questi dodici mesi di instancabili e coraggiose proteste del popolo bielorusso. Non solo perché dobbiamo sforzarci di tenere viva la memoria di ogni vittima, ma perché la sua storia, oltre ad aver mostrato al mondo la violenza, l’ingiustizia e l’impunità di una repressione che andava avanti già da tre mesi, marca un momento importante. Da quel tragico episodio e dall’inasprimento delle proteste che ne è seguito, la persecuzione del regime di Lukashenko, nei confronti di coloro che manifestavano pacificamente nelle piazze per chiedere elezioni libere e democratiche o che raccontavano quanto stesse accadendo, ha cambiato volto.
A novembre erano già centinaia di migliaia le persone che in Bielorussia avevano protestato contro un presidente che aveva rubato al popolo non solo le elezioni, ma anche un ideale di democrazia e di libertà. Fino a quel momento si contavano già 17mila arresti, centinaia di pestaggi, da parte delle autorità, per le strade non solo della capitale, ma di tante altre città bielorusse, e almeno tre persone uccise prima di Raman. Raman è morto per difendere una decorazione affissa in strada in bianco e rosso, i colori della Bielorussia libera. Le autorità hanno fin da subito negato il loro coinvolgimento nell’omicidio; hanno liquidato la faccenda dicendo che si trattava di un ubriaco che si era cacciato in una rissa, una scusa che chi ha a che fare con i regimi conosce bene. Qualche giorno dopo, però, appare sul web una foto della cartella clinica del ragazzo, in cui i medici indicavano che aveva «lo zero per cento di alcool nel sangue». Contestualmente, la testata indipendente Belsat pubblica un video che mostra tre uomini che trascinavano con forza Raman in un minibus anonimo. A quel punto, crolla la versione data dal regime di fronte alla comunità internazionale, che lancia una ferma condanna dell’accaduto. L’omicidio di Raman entra nel titolo di una risoluzione approvata al Parlamento europeo il 26 novembre 2020, mentre, in un comunicato, il portavoce dell’Alto commissario per la politica estera e la sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, parla di «risultato oltraggioso e vergognoso delle azioni della autorità bielorusse». Fino a quell’episodio, sapevamo bene tutti che la repressione non sarebbe finita lì. Era chiaro che la voglia di libertà del popolo bielorusso sarebbe stata più forte degli attacchi vili e delle intimidazioni del regime. Non potevamo immaginare, però, fino a dove si sarebbe spinta la violenza della repressione, che già si era mostrata senza precedenti. Non potevamo sapere che dalla persecuzione del singolo si stava passando, senza che ce ne accorgessimo, alla persecuzione sistematica di intere categorie: medici, studenti, avvocati, difensori di diritti umani, giornalisti.
La morte di Raman Bandarenka ha fatto crescere i movimenti di solidarietà ma ha portato anche l’arresto dell’anestesista Artem Sorokin, della giornalista del quotidiano bielorusso Tut.by, Katerina Borisevich e delle giornaliste Katsiaryna Andreyeva e Darya Chultsova, entrambe reporter di Belsat. Il messaggio intimidatorio era chiaro: il regime si apprestava a punire chiunque raccontasse la verità, chiunque proteggesse le vittime e mostrasse loro solidarietà. La repressione comincia, quindi, ad assumere il tipico volto della paura, quella che fa commettere azioni imprevedibili e completamente fuori controllo, con il solo obiettivo di annientare il nemico.
Oggi, a nove mesi da quell’episodio, il numero degli arrestati è salito a oltre 36.000, il numero dei prigionieri politici attualmente in carcere ha superato i 600, centinaia di migliaia di bielorussi sono stati costretti a fuggire nelle vicine Polonia, Lituania, Ucraina e in altri Paesi, sono state attaccate tutte le redazioni dei media indipendenti, molte di esse chiuse, oltre 100 sono le associazioni di promozione sociale e culturale del Paese per le quali il ministero della Giustizia ha avviato le procedure per dichiararle fuori legge, tra cui Baj, la storica associazione dei giornalisti bielorussi. Non vediamo più manifestanti per le strade, eppure continuiamo a contare le vittime di Lukashenko, anche fuori dalla Bielorussia. Perché persino chi è riuscito a fuggire da un Paese tuttora blindato e che continua a combattere al fianco dei suoi connazionali e a esprimere loro solidarietà, non può dirsi al sicuro fuori dai confini del regime. Ne è la prova la storia di Vitaly Shishov, fondatore della diaspora bielorussa in Ucraina, scomparso e poi trovato morto pochi giorni fa a Kiev. Il quadro che ci ritroviamo a osservare, oggi, alla vigilia dell’anniversario delle elezioni del 9 agosto 2020, definite fraudolente anche dall’Unione Europea, ci racconta un’incredibile storia di resistenza nonviolenta, fatta da persone che hanno dato tutto per vedere il proprio Paese libero dai meccanismi dittatoriali, che però hanno trovato partner impotenti nel proteggerli come avrebbero dovuto e voluto.
L’Unione Europea in questi ultimi mesi non si è mai esentata dal condannare fermamente le azioni di Lukashenko. Il Consiglio Europeo ha gradualmente imposto sanzioni mirate e di recente ha commutato le prime sanzioni economiche verso il Paese, volte all’indebolimento di quei settori commerciali che sorreggono il regime. Ha disposto una no-fly zone nello spazio aereo dell’Ue da parte di vettori bielorussi, come condanna di un atto criminale quale l’atterraggio forzato del volo Ryanair a Minsk, che ha messo in pericolo la sicurezza aerea, per arrestare illegalmente il giornalista Raman Pratasevich e la sua compagna Sofia Sapega. L’Europa c’è, su questo non ci sono dubbi, così come ci sono gli altri partner democratici. Ma quello che è stato fatto finora non è abbastanza e non risponde alla gravità di fatti che, ormai, coinvolgono tutti noi. Abbiamo fallito nel proteggere il popolo bielorusso, con cui condividiamo gli stessi valori. Non siamo stati in grado di prevenire ulteriori arresti, gli atti di tortura, le morti fuori e dentro le carceri. Non abbiamo saputo ascoltare chi ha dato l’allarme, come Maryna Zolotova, caporedattrice di Tut.by e Valiantsin Stefanovich, vicepresidente del centro per i diritti umani Viasna, grazie ai quali, con la Fidu e Supolka, abbiamo potuto portare avanti gran parte del nostro lavoro di denuncia, e che ora sono entrambi rinchiusi in una cella. Abbiamo rischiato che un’atleta bielorussa, Krystsina Tsimanouskaya, in gara alle Olimpiadi, fosse rimpatriata con la forza per poterla arrestare. Permettiamo che Lukashenko usi persino i migranti come arma di guerra per alimentare le tensioni sociali nella vicina Lituania, che ospita un gran numero di dissidenti bielorussi e che ha concesso lo status diplomatico di “ospite ufficiale” alla presidente eletta bielorussa Sviatlana Tsikhanouskaya. Nell’ultimo anno sono state fermate al confine lituano-bielorusso oltre 3.000 persone, si tratta soprattutto di profughi afgani, passati illegalmente dalla Bielorussia alla Lituania.
Il minimo che possiamo fare ora è prenderne atto, usare questi ultimi dodici mesi per fare un bilancio anche delle nostre inadeguatezze, per capire come potenziare e rendere efficaci i nostri sforzi, e finalmente aiutare un popolo che chiede la fine della violenza, il rilascio dei prigionieri politici e elezioni libere.
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