Forse in questi mesi vi è capitato di sentire o leggere un dialogo simile tra due interlocutori con visioni diverse: l’Italia negli ultimi tre anni cresce più della media europea; si, ma è solo grazie a tutta la spesa in deficit che abbiamo realizzato, evitando di ridurre il debito pubblico quando ne avremmo avuto la possibilità. L’occupazione in Italia è ai massimi storici; si, ma siamo ancora diversi punti sotto la media europea, e l’occupazione femminile e giovanile non decolla. L’inflazione italiana è più bassa della media degli altri Paesi; si, ma prima era più alta, e adesso è bassa perché i salari non sono cresciuti, dunque la domanda è scesa. L’export italiano continua a segnare un trend positivo; si, ma continuiamo a esportare tecnologie mature, e non di frontiera.
Insomma, il dibattito potrebbe continuare a lungo, ma la domanda resta.

Lo stato di salute

Qual è il vero stato di salute dell’economia italiana nel nuovo contesto globale venutosi a creare con l’invasione russa dell’Ucraina e il periodo di tensioni geo-politiche conseguenti? Ha ragione chi sostiene che siamo in questi anni in presenza di un nuovo ‘miracolo italiano’, concetto che non a caso risuona con maggiore probabilità all’interno dei palazzi del Governo, o chi, magari più vicino all’opposizione, mette in evidenza i fattori di debolezza strutturale del nostro sistema produttivo?

La risposta in realtà dipende dall’orizzonte temporale che andiamo ad osservare, e dunque quale analizziamo delle due grandi variabili che spiegano il ciclo economico, il Pil effettivo (congiuntura) e il Pil potenziale (trend). Guardando alla congiuntura, i dati mostrano in maniera abbastanza inequivocabile una ripresa post-pandemica forte in Italia, in generale nella parte alta della media europea, e sicuramente superiore a quella degli altri due grandi paesi con cui ha senso compararci, la Francia e la Germania. Le ragioni di questa più veloce ripresa sono collegate al maggiore impulso fiscale avutosi in Italia in questi anni anche grazie alla dimensione del Pnrr, un impulso che ha alimentato crescita e occupazione (e in parte inflazione); ed al fatto che l’economia italiana risulti un po’ più esposta di Francia e Germania, sia direttamente che indirettamente (attraverso le catene del valore), alla domanda finale che viene assorbita dagli Stati Uniti, e dunque beneficia relativamente di più del ciclo americano, che in quest’ultimo anno continua ad essere molto forte. Francia e Germania soffrono invece maggiormente il rallentamento del mercato cinese.

L’incognita sul Pil potenziale

In questo contesto resta però l’incognita sul Pil potenziale, cioè il tasso di crescita di medio periodo dell’economia italiana. Da questo dipende la ‘contabilità della paura’ legata alla sostenibilità del nostro debito. I conti sono presto fatti: se immaginiamo un costo medio degli interessi del debito pari al 3.5% del Pil nominale l’anno, ossia circa 75 miliardi di interessi ai numeri correnti, dobbiamo comparare questo numero con l’andamento nominale del Pil, ossia la crescita effettiva più inflazione. Quest’ultima nel medio periodo possiamo immaginarla intorno all’obiettivo della Bce, tra il 2 ed il 2.5%, se teniamo conto di una serie di fattori legati alla transizione energetica che probabilmente nei prossimi anni genereranno pressioni sui costi. Risulta allora evidente che se la crescita potenziale italiana dovesse risultare dello ‘zero virgola’ questo richiederebbe continui avanzi primari di finanza pubblica solo per stabilizzare il rapporto debito / Pil (la crescita più inflazione sarebbe inferiore al costo degli interessi).

Il lavoro sul miglioramento

L’Italia rischierebbe allora di finire tra l’incudine delle regole fiscali europee, che ci chiederanno di ridurre il debito, e il martello dei mercati, che potrebbero reagire negativamente qualora il tentativo di riduzione del debito, che con una crescita bassa si tradurrebbe in una stretta fiscale non facile da gestire né politicamente né economicamente, non avesse successo. Per evitare questa spiacevole situazione, è allora opportuno lavorare sin da subito sul miglioramento della crescita potenziale, cioè della produttività. Come ricordava Guido Tabellini su queste pagine qualche giorno fa, non sappiamo se in questi ultimi due anni, grazie agli investimenti nella transizione energetica e nel digitale che pure sono stati fatti, l’Italia sia già riuscita a guadagnare qualche decimale di crescita in più, ma proprio per questo non possiamo non continuare a investire su questo tema.

C’è di buono che la roadmap per farlo è già stata scritta: il Pnrr, nella sua componente di ‘resilienza’ è stato pensato proprio per questo, con un mix di riforme (della giustizia, della pubblica amministrazione, della concorrenza) e investimenti (nelle grandi transizioni, appunto). Sulle riforme siamo a metà del guado, nel senso che le modifiche legislative sono già state apportate, altrimenti non sarebbero arrivate le quattro rate di finanziamento della Commissione (oltre al prefinanziamento, anch’esso subordinato all’avvio della riforma della PA). Ma nei prossimi mesi la Commissione europea vorrà vedere l’effettiva implementazione di queste riforme nei rapporti tra Stato, cittadini e imprese, e qui i nodi inizieranno a venire al pettine. Simile situazione per gli investimenti, con quasi il 75% dei target che sono stati programmati per la realizzazione nei prossimi due anni.

Recuperare decimali di crescita

La corretta esecuzione del Pnrr dovrà dunque essere la via maestra per recuperare decimali di crescita fondamentali per la stabilità del nostro Paese. Tuttavia è evidente che non possiamo più pensare che l’orizzonte di politica economica si fermi al giugno 2026, quando il Pnrr terminerà. Ma anche in questo caso ci viene in aiuto la regolamentazione europea: la nuova legislazione comunitaria in materia di politica fiscale, che si applicherà a partire dal 2025, prevede un orizzonte di programmazione della spesa pubblica da parametrarsi alla crescita del Pil, su una pianificazione che potrà arrivare a sette anni. Di cui i primi due saranno appunto coperti dal Pnrr.

L’orizzonte di programmazione

Tale programmazione, prevedono le nuove regole europee, dovrà necessariamente contenere un’agenda di riforme e investimenti, e lavorare in particolare alla identificazione dei ritardi (gap) di investimento che permangono nel Paese, al fine di colmarli in chiave di rilancio della produttività. Risulta evidente che per rendere efficace questo nuovo approccio alla finanza pubblica sarà importante continuare il lavoro di coordinamento e confronto tra Istituzioni che ha caratterizzato sin qui la positiva programmazione del Pnrr. A questo scopo la Commissione europea ha da tempo suggerito ai paesi europei di dotarsi di Comitati nazionali indipendenti per il monitoraggio della produttività, dove tale confronto possa avvenire in maniera oggettiva e non di parte. Registriamo tuttavia che l’Italia è l’unico tra i grandi paesi europei a non essersi ancora dotato di tale organismo, pur essendo il Paese che, per le ragioni in precedenza esposte, ne avrebbe più bisogno. Un gap, questo sì, da colmare al più presto.