Nasco politicamente socialista. Mi iscrivo a 14 anni al Psi e ci resto fino al ’64, aderendo alla scissione del Psiup. Nel ’72, con la maggioranza dei “psiuppini” confluisco nel Pci. La mia formazione culturale e politica è stata perciò di un socialismo libertario. Io ascoltavo i canti di Ivan della Mea, mentre i comunisti le canzoni nazionalpopolari delle feste dell’Unità. Non ho mai assunto quello stile del “comunista classico” fatto tutto di serietà e disciplina. E direi ripetuta autodisciplina. Le mie modeste riflessioni, quindi, sono di un protagonista/testimone sì, che è però contemporaneamente un osservatore laterale.

C’è una “lunga linea rossa” che lega tutti i momenti della storia del Pci napoletano dalla svolta di Salerno nell’aprile del ’44 fino alla nascita del Pds: tenere insieme in un unico progetto politico, di rinascita e di rinnovamento, intellettuali e popolo. Si può dire un neogiolittismo e per popolo si pensava innanzitutto agli operai delle grandi fabbriche della zona industriale di Napoli, Bagnoli, Castellammare, Torre Annunziata, Pozzuoli e Pomigliano. Fuori restavano i ceti più esposti, i sottoproletari del ventre di Napoli, delle periferie degradate.

Il laurismo nell’immediato dopoguerra risultò vincente nel riferirsi innanzitutto a questi ultimi. E la Dc negli anni del boom, con Silvio Gava, rappresentava le tecnocrazie più illuminate collegate alla nascente Cassa del Mezzogiorno. Poi vennero gli anni ’60 col protagonismo degli studenti fino all’”autunno caldo”, con la ripresa delle lotte operaie. Mise radice, allora, una domanda di rinnovamento che aveva respiro lungo e sguardo lontano. E quando nel ’73 Napoli soffrì dell’epidemia colerica, i comunisti napoletani organizzarono la vaccinazione di massa, autogestita, riuscendo ad incontrare l’empatia di tutta la città, e in particolare, di quei ceti ultrapopolari che da sempre gli erano ostili.

Nel ’75, infatti, in modo alquanto inaspettato, il Pci, con Valenzi candidato sindaco, vince le elezioni. È la svolta. La Giunta, da Maurizio presieduta, è tuttavia minoritaria in Consiglio, e per otto anni è costretta a chiedere l’appoggio esterno della Dc. Del dibattito fra i comunisti, in questo periodo, sono testimone diretto. Perciò sono restio a darne una versione retorica e pacificata. Furono invece tempi di fortissimo scontro politico interno e di confronto tra impostazioni strategiche in conflitto e soluzioni tattiche aspramente contrapposte. Di queste vicende si conosce ancora troppo poco. Cito a mo’ di esempio alcuni passaggi cruciali.

Il primo episodio risale al ’76. Tutti ricordano il milione in piazza alla Mostra d’Oltremare al comizio di Berlinguer che concludeva la Festa nazionale dell’Unità. Pochi sanno che in quei giorni vi fu un contrasto aspro, proprio fra Valenzi e Berlinguer. Il primo era deciso a portare Napoli alle elezioni anticipate, per sottrarre la Giunta minoritaria al ricatto permanente della Dc per il necessario voto positivo sul bilancio. Ma Berlinguer, impegnato come era al rafforzamento del Governo di solidarietà nazionale, si oppose decisamente.

Il secondo episodio risale al ’79, quando, dopo gli anni dell’entusiasmo, vennero i risultati negativi per il Pci di Castellammare e del quartiere Stella-San Carlo all’Arena. Al congresso provinciale si pose esplicitamente il tema di sostituire Maurizio Valenzi con Andrea Geremicca che a molti di noi, i più giovani, si presentava come il dirigente più in grado di affrontare la fase critica. Il congresso fu vinto da noi. Io ero il segretario cittadino. Cacciapuoti era l’incaricato di Berlinguer a seguire i lavori. Il giorno dopo il congresso ci ritrovammo, in modo inaspettato, con un articolo di Berlinguer sul giornale II Roma. Berlinguer tesseva le lodi di Valenzi e lo riconfermava sindaco. La partita era persa. Io “per punizione” fui mandato a fare l’assessore in Giunta con Valenzi.

Terzo episodio. Dopo il terremoto ci fu uno scontro radicale tra i due assessori che avevano competenza sulle politiche urbanistiche. Uno era Lucarelli, l’altro Siola. Il primo, fautore della ricostruzione con recupero dei luoghi, l’altro fautore di un deciso intervento sostitutivo. La polemica fu feroce. Siola, accusato di essere fautore “di politiche di deportazione”, fu gambizzato dalle Br. Prevalse la linea di Lucarelli. Ho fatto tre esempi che avrebbero creato lacerazioni profonde e divisioni in qualunque formazione politica, se non fossero sempre sopraggiunti due fattori unificanti decisivi: l’ideologia e il centralismo democratico.

Poi venne la sconfitta del 1983 e il lungo, difficile decennio della vittoria del Pentapartito a Napoli. Poi il crollo di un’intera classe dirigente per effetto dello “tsunami giudiziario”. Fui anch’io accusato, non ne voglio tacere. Ero stato per 15 anni capogruppo in Consiglio comunale e, al tempo dei fatti, segretario provinciale del Pci (l’ultimo). Sei processi, dodici anni, sei assoluzioni piene. È in questa temperie che Bassolino diventa commissario del Pci napoletano. E da commissario si apre la strada per farsi indicare candidato sindaco. Anche questa non è una vicenda tutta lineare, perché il candidato naturale a sindaco era in quel momento Aldo Masullo, lo straordinario intellettuale scomparso di recente. Gli fu imposto di ritirarsi. Cosa che fece con grande discrezione e dignità. Già allora, comunque, il Pci non era più.

Oggi più che mai la storia napoletana del Pci lascia in eredità quella originaria impostazione politica e culturale di sempre: perseguire con ostinazione l’alleanza fra élite e popolo. Il Pd oggi prende a Napoli voti consistenti a Chiaia, Vomero e Posillipo. Perde clamorosamente nei quartieri popolari della città. Ancora una volta il compito di una sinistra riformista è provare ad avere un progetto di futuro per l’area napoletana che risponda ai bisogni dei più fragili e alla domanda di modernità delle categorie più resistenti.

Berardo Impegno

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