Con la sentenza del 30 maggio 2022 la decima sezione civile del Tribunale di Napoli ha rigettato la richiesta di risarcimento danni per la perdita di chances avanzata da Lucia e Germana Santangelo nei confronti del Ministero della Giustizia. La richiesta si fondava sulla distruzione dei reperti della cosiddetta strage di via Caravaggio che, secondo la prospettazione delle attrici (già persone offese dalla strage in quanto nipoti di una delle vittime), aveva definitivamente compromesso la possibilità di essere risarcite dai danni generati dall’uccisione dei loro congiunti poiché aveva reso definitivamente impossibile l’identificazione degli autori della strage, rendendo quindi impossibile il risarcimento del danno subìto nei confronti degli autori del delitto.

Il Tribunale ha anche condannato le due sorelle, nipoti di una delle vittime, al pagamento di ben 20mila euro di onorari in favore dell’avvocatura di Stato che aveva difeso il Ministero nel corso del giudizio, e in questo modo è stato scritto un ennesimo capitolo di quella storia infinita che è stata la cosiddetta “strage di via Caravaggio” in cui, nel 1975, trovarono la morte Domenico Santangelo, fratello del padre delle sorelle Santangelo, la sua giovanissima figlia Angela, la sua nuova moglie Gemma Cennamo ed anche il loro cagnolino. Unico imputato della strage fu un nipote della Cennamo, proveniente da una famiglia di notissimi professionisti napoletani, condannato in primo grado e, dopo una serie di ripetute pronunce anche della Cassazione, assolto con sentenza passata in giudicato. Questo atroce delitto, del tutto irrisolto, ha da sempre profondamente segnato la vita della città dando luogo, per la sua efferatezza e per la notorietà dei personaggi coinvolti, alla pubblicazione di vari libri e diverse trasmissioni televisive nazionali.

Quando ormai la vicenda giudiziaria sembrava definitivamente conclusa con un nulla di fatto, giunsero alla Procura di Napoli alcuni esposti con i quali si chiedeva di riaprire il caso utilizzando le nuove tecniche investigative legate alla ricerca del DNA, tecniche che sono state usate anche nelle indagini per l’uccisione della piccola Yara Gambirasio e che hanno portato, con sentenza passata in giudicato, alla condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti quale autore dell’omicidio e devo dire che, per una singolare coincidenza, le due indagini sono state anche temporalmente vicinissime. Per raccontare questo ennesimo mistero dei misteri e commentare con il rispetto che comunque merita ogni sentenza, e quindi anche quella di cui ho parlato in premessa, occorre riassumere, per quanto possibile brevemente, i fatti. I reperti della strage di via Caravaggio, come tutti i corpi di reato, erano conservati nei sotterranei di Castel Capuano, il vecchio Tribunale di Napoli, ed erano custoditi in alcuni scatoloni di cartone con i numeri di registro generale del processo e in tutti questi decenni non sono o meglio non erano mai stati persi di vista, tanto da essere stati anche fotografati da alcuni giornalisti che avevano visitato i locali intervistando a lungo i responsabili della loro custodia. Ricevuta la delega di indagini dai pm partenopei, l’attenzione della polizia scientifica si soffermò su alcuni mozziconi di sigaretta rinvenuti sul pavimento dell’abitazione, uno strofinaccio a fiori sporco di sangue e una busta sigillata, contenente una ciocca di capelli biondi che all’esterno indicava il nome dell’allora unico imputato nipote di una delle vittime.

La polizia scientifica, su delega del pm, effettuò i dovuti accertamenti e concluse che il DNA presente sulle cicche di sigarette coincideva con quello rinvenuto sulle ciocche di capelli biondi conservati in una busta con il nome dell’unico imputato mandato assolto dalla Corte di Assise di appello di Potenza con sentenza passato in giudicato, imputato che aveva però sempre sostenuto di non essere stato in quel tempo nella casa dove avvenne la strage. La notizia degli esiti delle indagini uscì sui giornali con ampia risonanza; in quel periodo nel Tribunale di Napoli ci fu anche un’ispezione ministeriale e si seppe che il processo era stato iscritto a carico non più di un solo indagato ma a carico di più persone rimaste ignote. In altri termini, a circa quarant’anni dai fatti, ci si rese finalmente conto che l’autore della strage non poteva essere una sola persona. La notizia apparve sui giornali, come pure che gli eredi della famiglia Santangelo erano difesi da me ed io mi convinsi del fatto che gli autori del delitto, nonostante il tempo trascorso, fossero certamente ancora in vita, tanto che ad uno dei quotidiani che scrisse del caso arrivò una lettera dal contenuto assai inquietante firmata con lo pseudonimo “Blu Angel”. Occorre sottolineare che il cuore di questa vicenda è ed era solo e soltanto uno, i reperti.

Rilessi parte degli atti del processo originale custodito nell’archivio di Perugia, dove conservano gli atti dei processi, e dico parte perché mi sembrò che i faldoni avessero contenuto molti più atti ma quello che riuscii ancora a trovare, secondo me, bastava e avanzava. Ora è evidente che in un processo a carico di ignoti i famosi “ignoti” avevano tutto l’interesse a che i reperti sparissero o fossero resi inutilizzabili. Ma facciamo un passo indietro: il gip rigettò la mia opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento avanzata dal pm salvo poi, quando la mia cliente decise di nominare un consulente per esaminare i reperti e fare a nostre spese taluni esami che al pm avevamo chiesto di effettuare di ufficio, autorizzare con parere favorevole del pm (se si trattava di esami utili perché non farli e delegarli a una parte?…questo è ancora uno dei tanti aspetti del tutto incomprensibili di questa storia!). Quando, tuttavia, insieme al consulente ci recammo a fare gli esami muniti di ogni possibile autorizzazione ci dissero che i reperti non c’erano. Chiesi una certificazione all’ufficio reperti e candidamente certificarono con atto pubblico, che fa fede sino a querela di falso, che i reperti erano stati distrutti e, se ricordo bene, che la loro distruzione era anche avvenuta prima che il gip avesse depositato la sua ordinanza con la quale doveva decidere sulla nostra richiesta di prosecuzione delle indagini.

La cosa mi parve talmente assurda e incomprensibile, tanto che reiterai la richiesta più volte e mi fu data anche la copia della pagina del registro con l’elencazione dei reperti distrutti tramite “martellamento”. Ora, come si possa distruggere a martellate uno strofinaccio e delle cicche di sigarette io non lo so, ma così ci dissero e dovemmo solo prenderne atto. Era evidente che il confronto tra il DNA dei reperti e dei sospettabili sarebbe stato impossibile. A questo punto le mie clienti, che pure avrebbero accettato anche una sentenza di improcedibilità per ne bis in idem, decisero di adire il giudice civile perché la sparizione-distruzione dei reperti di un processo in corso, che lo Stato aveva assoluto dovere di custodire con ogni diligenza, le aveva private della possibilità, anche solo teorica, di individuare i responsabili e di ricevere il risarcimento dei danni patiti per l’uccisione dei loro congiunti. Il Ministero della Giustizia, dopo alcune oscillazioni, si costituì nel giudizio civile affermando alla fine che i reperti, di cui si era più volte minuziosamente certificata la distruzione, erano invece stati rinvenuti.

Da quel che so, depositarono anche due dischetti con le riprese del “ritrovamento”, apparivano persone che indossavano gli stessi scafandri di guerre stellari ma, da quel che ricordo, le riprese ad un certo punto erano disturbatissime. Le sorelle Santangelo, preso atto dell’inaspettato mutamento del quadro probatorio e del passare degli anni che avrebbe reso comunque del tutto impossibile la celebrazione del processo in sede penale, non hanno ritenuto di approfondire i fatti ed hanno limitato la loro domanda risarcitoria rinunciandovi in ampia parte. Nonostante ciò, si sono viste condannare a ben 20mila euro di spese legali. In pratica, lo Stato italiano, benché non sia mai stato capace di individuare e condannare gli autori della strage né con i nuovi né con i tradizionali metodi investigativi, e benché abbia creato una sconcertante confusione nella conservazione dei reperti di un processo di eccezionale complessità e delicatezza, ora vuole anche 20 mila euro dalle famiglie delle vittime. Oltre al danno….le spese.