L'intervista
L’analista Molinaro: “Il Regime change in Iran sempre più vicino, esistono modalità molto sofisticate per manipolare pensieri e percezioni dell’opinione pubblica”

Enrico Molinaro, Ph.D della Hebrew University, vive e insegna a Gerusalemme. Ci risponde dal bunker sotto casa sua: fuori risuonano gli allarmi antimissile mentre parliamo. Presidente di Prospettive Mediterranee, Molinaro è a capo del network italiano della Anna Lindh Foundation. Il suo lavoro accademico è teso ad analizzare i soggetti della geopolitica attraverso una lente che distingue tra policy squisitamente vestfaliana (dal principio della sovranità vestaliana, nel diritto internazionale) e glocalista.
Israele sta cercando di promuovere un regime change in Iran?
«Lo Stato di Israele ha una popolazione ed una varietà di etnie ed identità collettive molto variegata e complessa, con un quarto dei propri cittadini arabi mussulmani, o appartenenti ad altre comunità religiose e linguistiche. Ma Israele è un prisma: alla matrice originaria prevalentemente vestfaliana, sul modello di Stato frontaliero pluralista ma tendenzialmente omogeneo nella condivisione dei valori comuni espressi nella Dichiarazione di Indipendenza di David Ben Gurion nel 15 maggio 1949, si è sempre affiancata una componente glocalista opposta in competizione con la prima».

Quindi sta spingendo per un “regime change”?
«Nella prospettiva glocalista di Netanyahu un regime change in Iran che lo portasse a essere diverso da una leadership vestfaliana che caratterizza il governo attuale, sarebbe l’ideale, ma in ogni caso ha già pronto un Piano B».
Ci sono segnali concreti o è solo una percezione alimentata dalla propaganda?
«Ogni ulteriore giorno di guerra la possibilità che il governo israeliano in carica possa tentare un cambiamento di regime in Iran aumenta, i fatti sono sotto gli occhi di tutti».
Quali strumenti userebbe uno Stato come Israele per indurre una rivolta popolare in Iran?
«Gli stessi strumenti utilizzati finora negli ultimi anni, soprattutto a cominciare dalla precedente presidenza di Hassan Rouhani, per tentare di organizzare ogni tipo di rivolta di piazza, soprattutto attraverso l’uso abile dei social network».
Quanto è strategico il ruolo della diaspora iraniana nei tentativi di destabilizzare Teheran?
«Finora ha avuto un peso relativo più nel mobilitare l’opinione pubblica estera, soprattutto occidentale, che all’interno, salvo rarissime eccezioni».
Reza Pahlavi e altri esuli sono agenti di cambiamento o pedine simboliche?
«Come nel caso dei precedenti tentativi di cambiamento violento dei regimi in Medio Oriente – Tunisia, Egitto, Libia, Iraq, Afghanistan, Siria – tali figure possono acquistare un peso rilevante soprattutto dopo, a cose fatte».
Nella storia recente, ci sono esempi in cui il modello di regime change “indiretto” ha funzionato?
«In tutti i casi citati il regime change di matrice glocalista esogena prima o poi ha funzionato, anche se in Tunisia ed Egitto nuovi leader hanno riconquistato il potere».
Quali sono stati, invece, i casi più clamorosi di fallimento del regime change?
«I due appena citati, anche se prevalentemente manu militari più che come risultato di un processo elettorale modellato sulle democrazie occidentali».
È possibile un cambiamento di regime senza il sostegno attivo della popolazione locale?
«Ovviamente no, ma nel 2025 esistono modalità molto sofisticate per manipolare i pensieri e le percezioni dell’opinione pubblica, le chiamano Menti Raffinatissime, o PsyOps (Operazioni Psicologiche)».
La storia mostra che senza consenso, ogni cambio di potere rischia il caos…
«La storia mostra che anche con una discreta componente di consenso mobilitato e manipolato dall’esterno il cambio di regime genera caos, come dimostrano gli esempi eclatanti di Libia ed Iraq, ma per usare un’espressione di origine inglese è una Promessa Auto-realizzata (Self-fulfilling Promise), nel senso che l’interesse dei glocalisti in generale è proprio indebolire gli Stati territoriali vestfaliani ed i loro confini come limite dell’identità collettiva in generale, con risultati che solo agli ingenui possono apparire un autentico “fallimento”».
Nel caso dell’Iran, quanto pesa il fattore “nazionalismo” nella difesa del regime attuale?
«Ciascuno Stato ha una componente più orientata in senso vestfaliano, nel caso dell’Iran attraverso la riscoperta e la valorizzazione dell’orgoglio persiano, ed una in senso opposto glocalista, in Iran esploso nel 1979 con la Jihad islamica sciita globale dell’Ayatollah Khomeini, anche lui peraltro formatosi nell’esilio occidentale. In Iran il patriottismo statale e l’orgoglio nazionale costituiscono ancora un sentimento diffuso a livello popolare, ma quando vedi che la speaker televisiva scappa in diretta durante un bombardamento nemico il problema si pone: davanti alla distruzione dello status quo c’è un punto di sfiducia totale che si associa alle aspettative degli oppositori di sempre di quell’odioso regime».
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