Ai tempi della prima chiusura generale abbiamo accettato pressocché tutti – chi non si adeguava suscitava immediata riprovazione – l’ordine di distanziarci, indossare mascherine, lavarci spesso le mani, osservare in genere misure severissime di auto ed etero-protezione. Poi è venuta l’estate, con uno sciagurato “rompete le righe”, e ora siamo alla seconda ondata pandemica, del resto ampiamente ricorrente in casi del genere: così fu anche per il colera del 1836 a Napoli (vicenda il cui svolgimento è oggi ricostruito in un bel libro da Gigi Di Fiore) e per la febbre spagnola europea degli inizi del Novecento.

Le nuove chiusure sono però accompagnate da diffusa impazienza e rifiuto, non solo a Napoli, città dal tessuto economico fragile. La protesta civile di categorie allo stremo per la difficoltà di campare si mescola a un mondo di ultras del calcio, di opposti estremisti politici, di “espropriatori proletari” – categoria che si riteneva estinta come certi virus ma che evidentemente restava acquattata a succhiare parassitariamente il sangue amaro del disagio delle periferie urbane – e di delinquenza organizzata. Unicamente da noi, però, il vertice dell’amministrazione napoletana flirta in modo ambiguo con l’humus dei centri sociali che alimentano anch’essi le rivolte (per due mandati, la sua vera risorsa di senso e di legittimazione politica) sottraendosi all’onere della leale collaborazione con l’istituzione regionale. Si dice – e il rilievo coglie nel segno – che si sia perso tempo prezioso per attrezzarci contro la ripresa del contagio.

Va tuttavia anche osservato che, dopo il disastro dell’attacco ai diritti sociali cominciato ai tempi della destra berlusconiana e continuato in quelli della pseudosinistra “rottamatrice”, entrambe più che sensibili alla sirena del capitalismo privato (il caso Whirlpool a Napoli fa comprendere che cosa significhi la precarizzazione ingiustificata del lavoro, giacché l’azienda aveva mercato e commesse), sarebbe stato difficile rimediare in pochi mesi. Ora i tempi sono diventati durissimi. Sacrifici ulteriori vanno coperti subito a carico dell’erario e con rinvii immediati delle scadenze tributarie e contributi ai proprietari di immobili locati, sgravandone gli inquilini. Parlare di una patrimoniale non può essere una bestemmia. Meglio, però, operare una distinzione tra garantiti e non garantiti per aiutare chi sta documentatamente peggio. Nessun prelievo forzoso nottetempo dai conti correnti, come quello dell’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, nottetempo, ma un appello alla solidarietà nazionale e al risparmio privato, in Italia notevole.

Come? Sia attraverso il lancio di cedole a scadenza almeno decennale (i risparmiatori diventerebbero cioè creditori dello Stato, ma intanto le risorse ricavate sarebbero appunto usate subito per aiutare i più deboli) sia attraverso un contributo straordinario una tantum, reddituale e pensionistico (la Corte Costituzionale non permetterebbe altro) a stipendi e assegni previdenziali oltre una data soglia. Si cominciasse pure dalle entrate certe più alte, ma chi scrive vuole anch’egli fare la sua parte, altrimenti si vergognerebbe: ho lavorato negli ultimi mesi da remoto via computer, risparmiato sul consumo di scarpe e abbigliamento (anche ora smanetto da casa in tuta e pantofole) e sulle spese di traporto in automobile, treno e autobus o taxi.

Mi sembra equo che mi si chieda di devolvere ai redditi più fragili almeno il mio sovrappiù di questo periodo e non solo. In emergenza, occorrono misure da socialismo di guerra. Con gli adattamenti del caso, nel linguaggio mediatico (si parla di “confinamento” e “coprifuoco”) e nell’immaginario collettivo: cinema e teatri chiusi non ricordano forse la situazione dello splendido film di Truffaut ambientato nella Parigi occupata dai nazisti, con la differenza che almeno lì le repliche venivano solo anticipate, per permettere agli spettatori di prendere le dernier metro?