Due sono i fatti della scena italiana che meritano davvero attenzione in questi giorni: in primo luogo, l’inedita modernità e tempestività dell’appello rivolto giovedì alla Presidente del Consiglio dal direttore di questa testata. Velardi ha invitato Giorgia Meloni a gettare maschera, cuore, visione e azione oltre ogni noto steccato e spirito di parte per costruire una proposta allargata, capace di portare la politica al di là delle inconcludenti schermaglie sulle tirate di capelli o sul Manifesto di Ventotene. Residui, entrambi, di un parlamentarismo novecentesco ormai inadatto alla velocità dell’oggi. La posta in gioco è il divario sul barcamenarsi tra i marosi del trasformismo italico o sedersi, con merito, al tavolo degli statisti di razza, rari a dire il vero, nella storia di questo Paese. Il dado è stato lanciato. Vedremo.

Il secondo elemento di attenzione è l’intervista che proprio Meloni ha rilasciato al Financial Times. La premier ha rivendicato con decisione un’identità chiara: l’appartenenza alla tradizione conservatrice, la vicinanza istintiva ai repubblicani americani e persino alle ultime esternazioni tranchant del vicepresidente JD Vance sugli europei. Questa comunanza di vedute va compresa senza pregiudizi sbrigativi o analisi sommarie: Meloni è la prima leader a scegliere di usare apertamente il termine “conservatore”, piuttosto che un generico “di destra”. Una novità assoluta. Non per mancanza di figure, nella storia del pensiero nazionale, che avevano caratteristiche chiaramente conservatrici. Si pensi a un Del Noce, a un Prezzolini o a Montanelli. Ma il loro conservatorismo era una sorta di sensibilità, non programmatica e per lo più culturale, quasi elettiva che non trovava corrispondenza diretta e piena in alcun partito della Repubblica.

Oggi la Presidente sceglie di usare questo termine e di traghettare senza indugi il suo partito sulle sponde del conservatorismo. Di fatto, un fenomeno inedito e una discontinuità con quella destra sociale da cui proprio FdI è scaturita. Come ben ricordava il filosofo inglese Roger Scruton, il termine “conservatore”, per ragioni storiche e culturali, trova una corrispondenza immediata quasi esclusivamente nel contesto anglosassone. E dunque, quella di Meloni, che ha annoverato pubblicamente proprio Scruton tra i suoi mentori, appare una scommessa coraggiosa e interessante e ha a che fare con la tenace e quasi cocciuta volontà di dar vita a un progetto politico nuovo e capace di incidere a lungo sulle sorti del Paese.

Un progetto soprattutto ben distinto da ogni “pruderie” sovranista, reazionaria o autoritaria. Per la stessa ragione, la tenace e non celata dichiarazione di vicinanza agli Usa non ha a che fare solo con un allineamento di circostanza o con la ricerca di scontati imprimatur. Non è neppure la banale opportunità di fare “da ponte” tra Europa e Stati Uniti, mestiere che gli inglesi svolgono meglio e con antica sapienza. Il cammino arriva infatti da lontano ed è da leggersi tutto nel disegno meloniano di voler essere la vera e unica promotrice dell’inedito conservatorismo politico italiano. Se la scommessa riuscirà, Meloni non sarà ricordata solo come «madre, donna e cattolica», ma potrà contendersi il podio nell’empireo con un’altra conservatrice di ferro, non a caso britannica, Margaret Thatcher.

Se poi l’appello del direttore Velardi troverà ascolto, allora significa che questo stesso nuovo conservatorismo riuscirà a essere credibile e attrattivo ben oltre gli steccati. Non si tratta più di vincere il derby destra-sinistra ma di mettere in campo una tradizione politica salda in grado di leggere il presente e gettare uno sguardo possibile verso il futuro. Per conservare ciò che serve e consegnarlo nelle mani di chi verrà.