“Quei primi venti minuti necessari per indossare la tuta protettiva sono fondamentali per evitare l’infezione. Il modo in cui indossiamo i nostri indumenti protettivi all’inizio di ogni turno decreta il nostro destino. Mi è capitato di avere a che fare con le malattie infettive prima d’ora, ma questo virus è diverso perché non ne sappiamo abbastanza”. Laura Lupi ha 24 anni, si è laureata in scienze infermieristiche e, appena un anno dopo, si è ritrovata a combattere all’ospedale di Teramo la più grave epidemia che il nostro Paese riesce a ricordare a memoria d’uomo.

“Ho lavorato in reparti di medicina generale e geriatria – racconta in un’intervista alle Nazioni unite – ma niente avrebbe potuto prepararmi per le sfide professionali ed emotive che sto affrontando adesso. I turni durano fino a dieci ore, durante i quali non può né bere né mangiare: “È impossibile togliersi le tute protettive. A volte mi manca il respiro e non sento l’aria fresca nemmeno se apro una finestra”. Eppure non è questo l’ostacolo maggiore da affrontare. Il coronavirus ha eroso la possibilità di stabilire un contatto con i pazienti: “La maggior parte della connessione umana, che è una delle cose che mi ha fatto innamorare di questo lavoro, si perde inevitabilmente”. Contatto umano che, inevitabilmente, è venuto a mancare anche negli affetti personali, con la sua stessa famiglia: “Il mio primo giorno nel reparto Covid-19, sono entrata in una stanza e un paziente stava piangendo. Quando gli ho chiesto cosa fosse successo mi ha risposto che sua suocera era morta e lui non poteva consolare sua moglie. Tutto quello che ho potuto fare per alleviare la sua pena è stato mettere una mano sul suo petto, ma lui non riusciva nemmeno a vedere il mio viso. Al mio ritorno a casa, ero fisicamente ed emotivamente distrutta, tutto quello che desideravo era l’abbraccio di mia madre, ma ovviamente non era possibile”.

Laura, infatti, pur vivendo in casa con i suoi genitori e suo fratello, ha rinunciato a trascorrere del tempo in loro compagnia: “Non posso correre il rischio di contagiarli, quindi non possiamo neanche condividere le cene”.

Ma se c’è qualcosa che la spinge ad andare avanti è la certezza che, alla fine, l’epidemia finirà e tanti pazienti potranno dire di avercela fatta: “Io so che possiamo sconfiggere il virus, lo possiamo combattere insieme. Voglio sentire i pazienti che tornano a casa dire “io sono sopravvissuto al Covid-19”. Questa è la motivazione che mi spinge ad andare avanti. Noi faremo tutto ciò che è umanamente possibile per vincere la pandemia insieme e ci riusciremo, dobbiamo riuscirci. La sola cosa che vi chiediamo è di rimanere a casa per noi. Noi saremo al lavoro per voi.”

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