Parla il portavoce di Base Riformista
“Lavoro, crescita e agenda Draghi: così il PD può abbattere il muro del 20%”, intervista ad Andrea Romano
Dallo scontro sul ddl Zan all’alleanza con i 5Stelle, dal “nuovo PD” che stenta a decollare ai referendum sulla giustizia. Temi caldissimi. Il Riformista ne discute con Andrea Romano, parlamentare del Partito democratico e portavoce di Base Riformista, l’area politica del Pd guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti.
L’Italia è ancora nella morsa della pandemia virale, con tutte le sue drammatiche ricadute sociali ed economiche, ma la politica sembra pensare solo a litigare sul ddl Zan, mentre non riscalda i cuori, neanche a sinistra, la tragedia dei morti sul lavoro. Come lo spiega?
La polemica sul ddl Zan ha un’origine tutta strumentale, legata al tentativo della destra italiana di compattarsi su una linea russo-ungherese e anti-europea: quella che vuole assecondare o fomentare le discriminazioni contro le persone LGBT in nome di una “normalità sessuale” in realtà inesistente. È un’operazione contraria all’opinione degli italiani (che nella loro stragrande maggioranza sono a favore di una legge di impianto europeo come il Ddl Zan, che si limita ad estendere alle persone con disabilità, alle donne e alle persone LGBT le tutele già previste dalla Legge Mancino contro i cosiddetti crimini d’odio) e di grande scaltrezza politica (perché il Ddl Zan è già stato modificato, migliorato e condiviso a larga maggioranza dalla Camera). È un’operazione che va respinta in Parlamento, chiamando ogni partito alle proprie responsabilità e senza perdere di vista le legittime preoccupazioni manifestate in buona fede da alcune associazioni e alcuni studiosi: a queste preoccupazioni – diverse dagli obiettivi strumentali della destra sovranista – si possono dare risposte di merito con gli ordini del giorno parlamentari, con cui chiarire con ancora maggiore precisione il perimetro della legge e alcuni punti controversi come quello della scuola e della libertà di opinione. Ma senza stravolgere né affossare una legge che renderebbe l’Italia più civile, più tollerante e dunque più europea.
Il PD continua a puntare su un’alleanza, sia pur competitiva, con il Movimento 5 Stelle. Ma anche alla luce del rischio d’implosione dei pentastellati, tra minacce di scissione e una fragile “tregua armata” tra Conte e Grillo, non ritiene che qualche riflessione andrebbe fatta?
In realtà non abbiamo mai smesso di riflettere sull’alleanza con i Cinque Stelle, che personalmente ho sempre letto come un’alleanza di fatto da non caricare di eccessivi significati ideologici. Così come non abbiamo mai smesso di spingere i Cinque Stelle ad abbandonare le tesi anti-democratiche, anti-europee e populiste che hanno tenuto fino al 2019. Su molti punti il Pd è riuscito a svolgere una funzione maieutica nei confronti dei grillini, che proprio grazie all’alleanza di governo con noi hanno abbracciato posizioni finalmente compatibili con l’interesse nazionale italiano, con la democrazia rappresentativa, con l’urgenza di sconfiggere una destra sempre più pericolosa. Pensiamo all’Europa, al rapporto con gli Stati Uniti, alla crescita economica: tutti temi sui quali i Cinque Stelle di oggi sono altra cosa rispetto alla stagione di Grillo e Casaleggio. E per fortuna, perché la politica è il contrario del “tanto peggio, tanto meglio”. Il Pd dev’essere orgoglioso di avere incalzato i Cinque Stelle sul merito, spingendoli a cambiare idea su molti temi, senza fermarsi a rinfacciare ai grillini la loro scarsa coerenza con le posizioni del passato: un tempo l’avremmo definita “capacità egemonica”. Oggi come ieri la domanda da farsi è se questa transizione sia definitiva e irreversibile, o se invece i Cinque Stelle corrano il rischio di tornare ad agitare bandiere incompatibili con l’alleanza con il Pd perché incompatibili con il bene del paese. È una domanda a cui dovranno rispondere gli stessi Cinque Stelle, chiarendo una volta per tutte la propria identità. Io mi limito ad auspicare due cose, nel rispetto della loro tormentata discussione: che non vi sia alcun ritorno al passato, sia perché non servirebbe a ritrovare i consensi perduti sia perché torneremmo alla vecchia distanza dal Pd; che abbandonino una volta per tutte il modello del “partito personale”, liberandosi da vecchi e nuovi padroni, scegliendo la via della trasparenza e della vera discussione politica. E quindi diventando un vero partito politico. Perché alla fine – parafrasando Churchill – il partito politico tradizionale che discute, fa congressi e sceglie un gruppo dirigente vero e contendibile è forse la soluzione peggiore per organizzare la militanza politica, ad eccezione di tutte le altre soluzioni.
Il “nuovo Pd” evocato da Enrico Letta è ancora un desiderio irrealizzato. La butto giù brutalmente: non è che questo Pd sia come il socialismo reale: irriformabile?
Le notizie sulla morte del Pd sono largamente esagerate, come avrebbe detto Mark Twain. E nonostante le nostre difficoltà e la navigazione inevitabilmente accidentata dentro una legislatura segnata dalla pandemia e da tre maggioranze diverse, il Pd continua ad essere un grande partito popolare che rappresenta l’architrave di qualunque prospettiva alternativa alla destra. Continuiamo ad esserlo sia perché gli elettori ci riconoscono questa funzione, sia perché esprimiamo una classe dirigente all’altezza delle sfide amministrative e di governo, sia perché siamo una comunità politica autentica che coinvolge, discute e sceglie in piena trasparenza. Significa che va tutto bene? Ovviamente no. Il muro del 20% può e deve essere rotto, recuperando appieno una vocazione maggioritaria che non è mai stata aspirazione all’isolamento ma capacità di parlare a tutti gli italiani con gli argomenti che sono più vicini alle preoccupazioni concrete e ideali degli italiani. In questo senso dobbiamo certamente fare uno sforzo in più – al contempo politico e comunicativo – sui temi della crescita economica e del lavoro: per tenere insieme con maggiore efficacia protezione sociale e sviluppo economico, per liberare le energie del paese e promuovere una modernità adeguata alla stagione della post-pandemia. Anche perché siamo l’unico partito che può farlo, rispetto ad una destra prigioniera delle semplificazioni del populismo, sedotta dal passatismo e impegnata solo a fomentare divisioni artificiali nella nazione. L’agenda Draghi è un’occasione anche per il Pd, che non solo deve respingere ogni velleitaria tentazione di contrapposizione al governo ma deve lavorare (come sta lavorando) per rendere quell’azione di governo ancora più fluida ed efficace, anche sollecitando quei ministri più restii al dialogo con il Parlamento (com’è il caso del ministro Giovannini, per fare un esempio) ad accogliere le sollecitazioni che vengono da partiti radicati sul territorio, portatori di temi veri, in dialogo costante con amministratori locali impegnati ogni giorno a governare le proprie comunità. È anche da questo dialogo che dipenderà l’efficacia del PNNR, un’occasione che non possiamo perdere e sul quale il Governo Draghi sta facendo molto bene.
Un altro tema caldo è quello dei referendum sulla giustizia. Perché il Pd li teme?
Al contrario, c’è profondo rispetto per questa raccolta di firme così come c’è sempre stato rispetto per ogni iniziativa referendaria. Al contempo la vera occasione per riformare la giustizia italiana è nel progetto Cartabia, largamente condiviso dalle forze di maggioranza e potenzialmente capace di introdurre una discontinuità vera e sostanziale nelle tante patologie del nostro sistema giudiziario (a partire dalla riduzione dei tempi della giustizia, la cui inaccettabile lunghezza rappresenta un limite sostanziale al nostro Stato di diritto). Il Pd sostiene con convinzione quel progetto non solo perché è parte fondamentale delle riforme su cui l’Italia si è impegnata con l’Europa, ma anche perché qui non si tratta di piantare bandierine ma di raggiungere un risultato storico e di raggiungerlo in Parlamento. Non ci nascondiamo il tema delle diffidenze del Movimento Cinque Stelle, che devono essere lette nel quadro della tormentata discussione di cui si diceva sopra. Ma anche qui i Cinque Stelle hanno di fronte due strade. Quella di partecipare con i propri argomenti ad una riforma storica per l’ordinamento della giustizia in Italia o quella – al fondo autolesionistica – di tornare prigionieri dei fantasmi forcaioli del passato, come vorrebbero Travaglio e quelli che come lui confondono legalità e impunità. È anche da passaggi come questo che si capirà, concretamente, quale sarà il futuro del Movimento e la prospettiva dell’alleanza con il Pd. Dopo di che gli stessi quesiti referendari vanno valutati laicamente, senza sacralizzazioni ideologiche, perché ve ne sono anche di inutili e di dannosi. Prendo ad esempio quello sulla responsabilità civile dei magistrati, che per come è confezionato introdurrebbe una modifica pericolosa per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura rendendola vulnerabile ai ricatti di poteri potenzialmente criminali. Non è un caso che una soluzione come quella prospettata dai referendari non esiste in nessun paese occidentale. Inutile appare invece il quesito sull’abolizione delle firme per la presentazione delle candidature al Csm, che non è affatto la panacea contro le candidature di corrente (perché le correnti si organizzano sul voto, non sulle candidature).
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