E ora che fa il Pd? La domanda è scomoda dalle parti del Nazareno e anche tra i gruppi parlamentari e persino al telefono. Si diffida anche della solita formula “off”. «Il segretario Letta ha lanciato le Agorà delle idee» risponde compita una senatrice, come dire che il segretario si occupa soprattutto di «rafforzare l’identità del Pd». Un deputato spiega che nei circoli è arrivata la mail del segretario con cui si invita a raccogliere proposte e idee che poi saranno veicolate alla segreteria.

In un circolo di Roma, zona Eur, pare che un iscritto abbia risposto: «Il mio contributo di idee? Non fate più nulla di quello che è stato fatto finora». E insomma, come dare torto? Il «federatore del campo largo del centrosinistra», «il punto di riferimento dei progressisti» – così è stato ribattezzato Giuseppe Conte al Nazareno, prima e con Letta – è una specie di re con popolo ma senza terra e ha ingaggiato una guerra verbale e tribale con Beppe Grillo. Non bene. L’alleanza strutturale con il Movimento 5 Stelle non c’è più perché si è dissolto il Movimento. «Vediamola in positivo – suggerisce un dirigente Pd – se prima il campo largo del centrosinistra aveva due gambe, Pd e M5s, adesso ne potrebbe avere tre e un piedino…». Insomma, diventare veramente plurale. Qualche inguaribile ottimista sempre in forza al Pd immagina la lista Grillo tra l’8 e il 10%, quella di Conte più o meno uguale «più il nostro 18-20%: così possiamo essere veramente competitivi con il centrodestra». Bontemponi. Come se dopo questo macello l’elettorato d’area grillina potesse addirittura aumentare dividendosi. La storia non insegna questo.

Altri deputati citano la legge di Murphy: «Se qualcosa può andare male, stai sicuro che lo farà». Letta dando l’appoggio al governo Draghi aveva scommesso su due fattori: che Salvini col tempo uscisse dalla maggioranza mettendosi ai margini da solo per non restare schiacciato da Meloni; che Conte diventasse leader del Movimento. «Mi pare che siano andate male entrambe» osserva un deputato che si è posizionato dalla parte del segretario. «Adesso non ci resta che stare a guardare e incrociare le dita, non possiamo fare altro». Intanto che le “Agorà delle idee” fanno la loro strada. E sperando che le correnti, c’è chi ne conta otto (Base riformista, Orlando, Letta, Zingaretti, Orfini, Franceschini, Delrio che però forse è passato con Br, Ascani), vogliano evitare rese dei conti interne.

È una partita in due tempi. Due verifiche importanti per capire dove va la storia. E dove va il Pd. Il primo tempo scadrà in autunno con le amministrative. Il collasso del Movimento peggiora ulteriormente le cose. A Napoli il candidato Manfredi sostenuto dal ticket Letta-Conte ha spiegato di «non risentire in alcun modo dell’eventuale scissione convinto che la guerra interna non avrà riflessi sull’elettorato». In realtà a Napoli una parte dei 5 Stelle chiedono di poter correre con il proprio simbolo, «Beppe – dicono – dacci questa possibilità». Il tempo per la presentazione di liste e candidati è quasi scaduto. Sarebbe uno strappo molto traumatico. Assai poco probabile. Persino per Grillo.

Diversa la situazione in Calabria: il candidato del Pd Nicola Irto è stato messo alla porta nonostante il largo consenso per fare posto alla candidata scelta da Conte, l’imprenditrice Maria Ventura. Il Pd calabrese non ha condiviso. S’era diffusa la voce in queste ore che Irto potesse tornare in auge: desiderata senza riscontro. Il Movimento in Calabria è Nicola Morra che sta con Grillo e non certo con Conte. A Torino non è ancora chiaro cosa succederà: le primarie del Pd sono state vinte da Stefano Lorusso che una cosa ha chiara in testa: mai con i 5 Stelle. A Bologna, al contrario, ha vinto Matteo Lepore che con i 5 Stelle immagina alleanze strategiche ma deve fare i conti con il 40% di bolognesi che alle primarie hanno votato Isabella Conti che con i 5 Stelle non ci andrebbe neppure a fare colazione. A Roma il campo largo del centrosinistra è diviso in tre, Gualtieri, Raggi, Calenda.

Difficile immaginare a questo punto alleanze anche per il secondo turno. Sarà tutto deciso sul momento. Carlo Calenda ha fatto un appello a Letta: «Molla Grillo e Conte, sono due frutti avvelenati, andiamo in mare aperto, uniamo i riformisti da Sala a Carfagna e basta subalternità con i 5 Stelle». Difficile che Letta risponda adesso. Ha ricevuto il messaggio. Al Nazareno però non è un mistero che “le tre gambe e il piedino” che dovrebbero sostenere il centrosinistra (Pd, Conte, M5s e Leu) sono diverse da quelle immaginate da Calenda. Non c’è Calenda. Non c’è Renzi. Anche perché, spiega una deputata di Base Riformista, «a questo punto è evidente che la Lista Conte andrà a coprire quell’elettorato di centro dove l’ex premier pesca il suo alto consenso». In pratica il centro del centrosinistra dovrebbe diventare Conte. Incompatibile tanto con Renzi che con Calenda.

Attenzione poi agli abbracci mortali. I sondaggi ieri dicevano che la lista Conte andrebbe a pescare nell’elettorato Pd «che andrebbe sotto il 15%» e del Movimento che scivolerebbe tra il 5 e il 7 %. Letta deve ragionare, e in fretta, anche su questo. Sarebbe il colmo portarsi il cavallo di Troia in casa. Ecco perché la speranza è sempre che alla fine Conte e Grillo trovino un accordo. O che l’ex premier ritardi il più possibile la formazione del suo partito. Tutte variabili che portano alla seconda partita, quella del Quirinale (febbraio 2022) . Un parlamento balcanizzato non aiuta certo i piani del Pd che sperava di dettare l’agenda almeno per la scelta del Capo dello Stato. Tutto questo ora riapre i giochi per la rielezione di Sergio Mattarella. Con Draghi a palazzo Chigi per il tempo che serve.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.