Osservando le fratture e le divisioni che attraversano lo spazio politico di quelle forze che si oppongono – purtroppo senza riuscirsi – al governo di destra-centro nazionalista antieuropeista e populista che governa l’Italia – purtroppo anch’esso senza riuscirci – vengono i mente i campi di battaglia che insanguinano i confini dell’Europa senza intravedere nessuna prospettiva di pace.
Le faglie più profonde sono due: quella tra massimalisti e riformisti e quella all’interno dello spazio riformista. La prima è profondissima e rimanda al nodo centrale della natura del suo principale soggetto politico: il Pd. Nella loro lotta fratricida contro il riformismo di Veltroni e Renzi l’oggetto del contendere era uno solo: respingere la natura di partito di governo a vocazione maggioritaria forgiata da Veltroni al lingotto per tornare ad essere una forza minoritaria “di lotta e di governo” – ecco perché tutti gli attuali dirigenti si sono recati a vedere la mostra su Berlinguer, il principale artefice di quella formula e plaudono adoranti al ritorno del cattocomunismo nella versione di Rosy Bindi e della Comunità di Sant’Egidio -.

Rileggendo le sintesi comparse sui giornali dell’assemblea del Pd si rimane sconcertati dal vuoto politico di quella riunione della quale resta solo l’invocazione della Bindi a riabbracciare con forza l’anticapitalismo neoliberista – come se ci fosse ancora – e il pacifismo senza scopo che attraversa assai più blandamente di quanto non sembri le piazze dell’Occidente. E dal paradosso che l’ha attraversata: senza nessuna prospettiva di partito di governo come si fa a sostenete l’ambizione federativa della sinistra lanciata dagli ex federatori accorsi al capezzale della Schlein alla ricerca di un ruolo che non ha?

Per ambire a governare e a costruire un alternativa vera alle destre egemoni bisogna sciogliere 5 nodi.

1 – L’impresa è ancora la sentina dello sfruttamento e ora più che mai oggi uno dei fondamenti della libertà dei moderni chiamata a ricomporre le sue fratture di classe ereditate dal Novecento? Se si seguono Landini, la Bindi e i capi delle correnti che hanno condotto la battaglia contro il riformismo renziano, la risposta è quella perdente delle piazze di questi mesi nelle quali il Pd sembrava una enorme SEL erede di tutti gli esperimenti minoritari e sconfitti del passato (Psiup, Lotta Continua, Pdup, Rifondazione comunista ecc) impegnato a difendere il lavoro povero senza domandarsi perché in Italia ci siano i salari più bassi del continente e una spesa pubblica fuori controllo.

2 – Bisogna sapere da che parte si sta nel mondo. E il Pd non lo sa più da tempo come nessuno dei grandi partiti che socialismo europeo, perché intriso ancora di vecchi richiami terzomondisti, di lugubri eredità delle passate esperienze comuniste (il nodo della Rivoluzione d’Ottobre – catastrofe o mito rivoluzionario? – è ancora non pienamente sciolto), e di antiamericanismo con venature antieuropeiste. Questa incertezza emerge di fronte al dramma ucraino o palestinese per cui se oggi il Pd e i suoi alleati fossero al governo non saprebbero seguire Biden e la Nato nel sostegno alla resistenza ucraina o allo sforzo israeliano di liberarsi della minaccia terroristica con quella determinazione necessaria messa in campo da Macron o da Scholz o da Sunak, ma nemmeno dallo stesso Sanchez. In sostanza sarebbero senza politica estera. E come si fa a guidare una delle principali democrazie del mondo senza sapere da che parte guardare le contradizioni del mondo, senza sapere quali sono i suoi interessi geopolitici e tentennare nella difesa dei valori dell’Occidente?

3 – Bisogna abbandonare Davigo, Scarpinato, Santalucia al loro destino antidemocratico e giustizialista che ha contribuito ad aprire le porte al populismo e alla creazione del sistema giudiziario più inefficiente e ingiusto dell’Occidente, e riprendere la via difficile del garantismo iscritto nella costituzione. Fino a quando il Pd rimarrà abbarbicato alla sua cupa natura di partito dei giudici, sviluppata prima per combattere Berlusconi e poi dai massimalisti per combattere Renzi e i rifomisti, l’area di governo gli sarà preclusa perché riformare la giustizia è uno snodo ineludibile per potenziare la democrazia e non lo si può fare con il consenso dei magistrati giustizialisti (ci ha provato Orlando per lunghi anni senza portare a casa niente) che devono essere sconfitti.

4 – Bisogna abbandonare il massimalismo ambientalista e abbracciare il realismo della transizione energetica che comporta dire una montagna di si e pochissimi no. Certo se si insegue Bonelli e i dirigenti che la Schlein ha messo alla testa dei dipartimenti della direzione che si occupano del tema governare diventa un miraggio per il Pd. Governare oggi infatti significa dire se al nucleare di nuova generazione, si alle piattaforme dell’Adriatico, si al Ponte sullo Stretto di Messina e alle grandi infrastrutture, si alle rinnovabili, ovunque si possano impiantare mettendo a tacere insulsi veti, utilizzando una molteplicità di leve (fiscali, tecnologiche ecc) che favoriscano l’accelerazione della transizione.

5 –  Bisogna riconoscere che non abbiamo la costituzione più bella del mondo. Il ritorno del comando massimalista sul Pd dopo la sconfitta del 2018 (più presunta che reale visto che quel 19% raggiunto da Renzi dopo due scissioni, oggi la Schlein se lo sogna, perché non lo raggiunge nemmeno con il ritorno di quelli che se ne erano andati sei anni fa) ha significato l’abbandono di ogni progetto di riforma della costituzione che era invece nel DNA dell’Ulivo e del Pd in nome di un parlamentarismo assemblearista che pesa negativamente su ogni istanza di modernizzazione del paese. L’assenza di qualsiasi alternativa di fronte alla confusa proposta del premierato della Meloni lascia supporre che se domani il Pd e i suoi alleanti tornassero al governo tutto resterebbe paralizzato per la gioia di Bersani, di Repubblica e di Zagrebelsky con la sua corte di costituzionalisti da talk show. Anche per questo gli italiani continuano a votare le destre o non andare a votare.

Scalfire questa narrazione oggi sembra molto difficile perché le fratture sono molto gravi e non si aggirano con le chiacchiere. Sono simili a quelle degli anni Venti e a quella del secondo dopoguerra dove i riformisti combattevano contro unita con i comunisti e il mito dell’Urss per riscoprire l’autonomia della socialdemocrazia e l’atlantismo antisovietico. Un cambio di passo radicale che comporterebbe inevitabilmente l’abbandono di ogni prospettiva di alleanza strategici con il populismo che si fonda proprio sul mancato scioglimento di quei quei 5 nodi.
Ma anche il campo riformista non gode di ottima salute dopo il fallimento del Terzo polo, per l’incapacità di Calenda di costruirlo vittima delle sue ambizioni mal riposte. Oggi nell’opinione pubblica esiste una domanda politica la cui risposta sopravvive frammentata su tre o quattro soggetti politici che separati non sono appetibili: non sono la risposta che i cittadini riformisti si attendono. Anche qui ci vorrebbe un federatore ma in Italia non c’è per la debolezza delle diverse leadeship. Ma si sta delineando un papa “straniero” nel senso proprio del termine: dall’Europa infatti nel perimetro delle forze della sinistra liberale sta emergendo una spinta a federare le forze del riformismo italiano fuori dal Pd dove nessuno batte un colpo. Renew Europe sta tentando di spingere all’unità minima – una lista elettorale per il giugno del ’24 – queste forze perchè superino veti incrociati e personalismi esasperati e per le elezioni europee creino se non una casa comune per lo meno un attendamento nel quale gli elettori italiani contrari al bipopulismo possano convintamente ritrovarsi in attesa di tempi migliori.

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Studioso di storia contemporanea, ha insegnato nelle Università di Bologna, Torino e Milano. E’ stato visiting professor presso la Brown University (Providence RI) e l’Ucla (Università della California) di Berkeley. E’ stato direttore scientifico e poi vicepresidente dell’ Istituto Nazionale Ferruccio Parri. E’ presidente di REFAT, Rete internazionale per la studio del fascismo, autoritarismo, totalitarismo e transizioni verso la democrazia, e della Fondazione PER – Progresso,Europa,Riforme. La sua ultima pubblicazione è Perché il fascismo ha vinto. 1914-1924. Storia di un decennio, Milano, Le Monnier, 2022.