Il divorzio in Italia compie cinquanta anni. A mezzo secolo dall’approvazione in Parlamento della Legge Fortuna, le celebrazioni sono forse superflue. È invece opportuna, perfino necessaria, qualche riflessione su ciò che quella lunga battaglia civile, che si concluse solo nel 1974 con la vittoria del NO al referendum abrogativo voluto dalla Chiesa di Paolo VI, ha significato nella storia recente di questo paese: su ciò che ha prodotto e i processi politici e legislativi che ha innescato e, soprattutto, su quelli che poteva produrre e sono stati impediti e bloccati. Nel lontano 1962, come Sinistra Radicale, avevamo proposto con Pannella agli “amici del Mondo”, che allora erano la maggioranza del Partito Radicale, l’adozione di una strategia che non si limitasse a rivendicare, in maniera ideologica e identitaria, una posizione anticlericale e anticoncordataria.

Ritenevamo che il nostro laicismo dovesse essere rivitalizzato con una politica di riforme che trovasse le sue radici e la sua forza nella società e sfidasse apertamente gli equilibri esistenti, gli ostacoli e i veti derivanti sia dalla partecipazione dei partiti laici ai governi presieduti dalla Democrazia Cristiana sia dalla politica dell’unità nazionale perseguita dai comunisti. Pensavamo per questo ad una politica di chiara alternativa alla Dc, fondata sulla affermazione dei diritti civili, con al centro l’obiettivo di introdurre in Italia, come in tutti i paesi democratici, l’istituto del divorzio. E non temevamo, anzi ritenevamo auspicabile, sull’esempio mitterrandiano che ci veniva dalla Francia, il confronto e l’incontro fra sinistra democratica e socialista e sinistra comunista.

La nostra posizione rimase allora minoritaria, respinta dalla maggioranza radicale e dalle classi dirigenti dei partiti laici. Ricordo un corsivo irridente della Voce Repubblicana che liquidava la nostra proposta come ridicola e impossibile. Era invece tanto realistica e possibile che in un numero limitato di anni (sette o otto) il divorzio, con l’approvazione della legge Fortuna, divenne legge dello Stato e argomento centrale del confronto politico a causa del decisione della Chiesa di chiederne l’abrogazione per via referendaria.

Il primo insegnamento che ci viene da quell’avvenimento è che quando una minoranza interpreta una esigenza reale della società e del paese in cui vive, può riuscire a modificare profondamente gli equilibri esistenti e ad imporre cambiamenti significativi. Per farlo però non bisogna essere accecati dalla ricerca del consenso e dalla gestione e spartizione del potere che ossessiona, oggi come ieri, le classi dirigenti ma avere la capacità di saper interpretare ciò che avviene alla base della società. Quelle minoranze, di cui ho avuto l’onore di far parte, ebbero l’ardire di riproporre, con la questione del divorzio, un confronto sulla laicità dello Stato che nella assemblea costituente aveva avuto l’infausto esito dell’approvazione dell’art.7, votato da una maggioranza di cattolici e comunisti, con il voto contrario di laici, socialisti e azionisti e che nelle prime legislature repubblicane condizionò sia le maggioranze su cui si reggevano i governi democristiani sia l’opposizione comunista.

Poterono farlo, sfidando le resistenze che venivano dal loro stesso schieramento laico e dal partito comunista, perché seppero comprendere un fenomeno nuovo che era la conseguenza del profondo mutamento del sistema economico e produttivo: con la liberalizzazione degli scambi sia la ricostruzione postbellica sia il processo di industrializzazione avevano subito infatti una impennata che provocò, dal 1945 al 1965, lo spostamento del 20-30% della popolazione dall’agricoltura all’industria e ai servizi, dal mezzogiorno al settentrione, dalla campagna alle città. Nell’arco di una generazione il paese aveva dovuto affrontare trasformazioni sociali, culturali, perfino antropologiche, che altri paesi europei avevano conosciuto nell’arco di uno o due secoli. Di questo sconvolgente processo di trasformazione la famiglia italiana fu la prima vittima (e soprattutto lo furono le famiglie dei ceti più deboli ed esposti). L’indissolubilità del matrimonio, lungi dal salvaguardarla, produsse uno stuolo di separati e di separate, di famiglie di fatto, di “fuorilegge del matrimonio”, privi di ogni diritto.

La battaglia ideale e politica laica per l’istituzione del divorzio divenne per questo anche una grande questione sociale, un confronto e uno scontro che non riguardava ristretti ceti elitari ma aveva la propria origine e le proprie radici in una ampia base popolare. Questa fu la ragione per la quale, nonostante i rapporti di alleanza di socialisti e laici con la Dc, la Lid (Lega Italiana per il Divorzio) di Marco Pannella, Loris Fortuna e Mauro Mellini riuscì a tenere unito e a rafforzare lo schieramento divorzista e a vincere le resistenze e l’iniziale opposizione del Pci, che dopo le politiche del 1968 unì le firme di Nilde Jotti, di Ugo Spagnoli e di altri suoi deputati a quelle di Fortuna, Baslini e degli altri firmatari laici e socialisti. La approvazione e promulgazione chiuse il confronto parlamentare ma aprì lo scontro politico non solo con la Chiesa di Paolo VI, che aveva promosso un referendum abrogativo, ma anche con il Pci di Berlinguer e una minoranza di laici che erano disposti a modificare e snaturarla, pur di impedire il voto referendario. Alla fine, anche grazie alla resistenza dei socialisti, il referendum si svolse e fu vinto dai sostenitori del divorzio con un’ampia maggioranza: quasi il 60% di No all’abrogazione, che smentirono il pessimismo del segretario del Pci, secondo il quale il referendum si sarebbe vinto o perduto per pochi voti.

Quello scontro, che si protrasse per tutti gli anni 70 e per l’inizio degli anni 80, ebbe altri meriti oltre quello di confermare la legge Fortuna. In primo luogo, quelle due vittorie, parlamentare e referendaria, e i referendum che i radicali contrapposero a quello abrogativo del divorzio fiaccarono le resistenze clericali e conservatrici ed aprirono la strada a quella che amo definire la “rivoluzione dei diritti civili”. Dall’obiezione di coscienza al servizio militare al voto ai diciottenni, dalla riforma del diritto di famiglia alla chiusura dei manicomi, dalla legge 194, che aboliva il reato d’aborto e legalizzava l’interruzione di gravidanza stabilendone modalità e limiti, all’adeguamento dei codici e dell’ordinamento penale militare alla Costituzione, l’Italia conobbe una densa e proficua stagione di riforme legislative e civili.

E, grazie a quelle lotte politiche e a quelle riforme, crebbe la lotta per l’emancipazione e la liberazione della donna dai condizionamenti a cui la costringevano una legislazione e una cultura ancora patriarcale ed ebbe inizio, con il FUORI, quella per la libertà sessuale e omosessuale. Senza quello scontro politico e quelle riforme, gli anni 70 e la prima metà degli anni 80 sarebbero stati ricordati come gli “anni di piombo”, gli anni del terrorismo più spietato. Fu il figlio di Aldo Moro, Giovanni, a ricordare che furono invece anche anni di grandi e significative riforme, quella realizzata con l’approvazione dello statuto dei lavoratori e quelle già ricordate dei diritti civili.

Quando morì suo padre, brutalmente assassinato dai suoi rapitori, nel 1978, poche settimane dopo la sua morte ebbe inizio la campagna elettorale su due referendum che i radicali avevano presentato per chiedere l’abrogazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti e della legge Reale. Eravamo isolati nel sostenerli, avendo contro tutto lo schieramento dei partiti del cosiddetto arco costituzionale ma quello scontro politico tornò a far prevalere l’aria, il vento della democrazia, spazzando via non il ricordo delle sue vittime ma l’odore di quel piombo che altrimenti avrebbe continuato a gravare sulla nostra vita e le nostre istituzioni. Non era vano sperare che da quegli avvenimenti derivassero importanti cambiamenti nella vita delle istituzioni. La volontà del Popolo italiano si era espressa ripetutamente, soprattutto per via referendaria in favore di una alternativa democratica.

La vittoria dello schieramento divorzista, di cui si avvantaggiò elettoralmente soprattutto il partito di Berlinguer, fu invece utilizzata per perseguire la politica del compromesso storico e l’appoggio ai governi di unità nazionale, che privilegiavano da parte del Pci il dialogo con i cattolici e i rapporti con la Dc e con la Chiesa al confronto e alla possibile alleanza con la sinistra laica e socialista. Invece della possibile alternativa democratica, abbiamo conosciuto l’illusione della rivoluzione per via giudiziaria e una moralizzazione a senso unico che, in luogo di cancellare le deformazioni partitocratiche e di riformare il sistema politico, si è limitata a criminalizzare solo alcuni partiti come se fossero i soli responsabili di quelle degenerazioni.

Per effetto di quelle scelte, quando è imploso il mondo comunista, i partiti che erano stati il perno della nostra Repubblica, al governo e all’opposizione, la Dc e il Pci, mancarono lo storico appuntamento sia con la loro autoriforma sia con la riforma dello stato e della democrazia italiana. Di tutto questo paghiamo oggi, con il dilagare del populismo, le amare conseguenze. Forse ispirandoci oggi a quegli avvenimenti possiamo sperare che il Populismo non sia il nostro destino e che possano tornare a farsi valere le risorse democratiche che in questo Paese continuano ad esistere.