L’Intelligence ucraina l’ha rivendicato con orgoglio. Ieri, in un video pubblicato sui propri canali social, lo Sbu, il Servizio di sicurezza di Kyiv, ha fatto vedere di essere riuscito a colpire ancora una volta il ponte di Kerch. Un attacco chirurgico, preparato per mesi, con gli agenti dei Servizi ucraini che hanno minato i piloni dell’infrastruttura danneggiandone i sostegni subacquei. E il capo dei Servizi ucraini, Vasyl Malyuk, ha confermato l’attacco, sostenendo che “non c’è posto per strutture russe illegali sul territorio del nostro Stato”. Ma il colpo, oltre ad avere un enorme valore simbolico, è importante anche per il momento. Dopo l’attacco su vasta scala alle basi aeree russe, e dopo che il Comitato investigativo russo ha confermato la sua tesi sul ruolo di Kyiv nelle esplosioni dei ponti ferroviari di domenica, questo blitz mostrato ieri è un’ulteriore prova di come i Servizi ucraini riescano ormai con una certa facilità a bucare la rete di sicurezza di Mosca.

E mentre i negoziati proseguono con estrema fatica, gli analisti hanno subito avvertito del pericolo di una rappresaglia di Vladimir Putin. Ieri le forze russe hanno inviato un primo segnale colpendo Kharkiv e Sumy, e provocando morti in entrambe le città. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha condannato il raid dichiarando che “sono state colpite la città, le strade normali, con artiglieria missilistica”. “Un attacco assolutamente deliberato contro i civili”, ha tuonato Zelensky, il quale ha anche ribadito che “senza pressioni da parte del mondo, senza passi decisivi da parte degli Stati Uniti, dell’Europa e di chiunque al mondo abbia potere, Putin non accetterà nemmeno un cessate il fuoco. Non un solo giorno la Russia smette di attaccare le città e i villaggi dell’Ucraina”.

Cosa farà ora il presidente russo è difficile da prevedere, ma l’impressione, anche dopo il fallimento dei negoziati di Istanbul, è che da Mosca l’ordine sia quello di non mostrare alcun interesse a un rallentamento del conflitto. Ieri, mentre bombardava Sumy, la Russia ha rivendicato la conquista di un altro villaggio nella stessa regione, Andriivka. E sul fronte delle trattative, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha definito “improbabile”, quantomeno nel prossimo futuro, un vertice tra Putin, il presidente statunitense Donald Trump e Zelensky. Un incontro su cui invece la Casa Bianca ha confermato la propria disponibilità. “Il presidente Putin ha più volte sottolineato la sua disponibilità a contatti al massimo livello, rimarcando che tali contatti dovrebbero essere il frutto di quegli accordi che saranno già elaborati a livello tecnico e a livello di esperti. Pertanto, il presidente supporta questi contatti, ma ritiene che debbano essere ben preparati”, ha affermato Peskov.

Ieri il capo della Commissione Affari esteri della Duma di Stato, Leonid Slutsky, ha annunciato che probabilmente il nuovo round di colloqui a Istanbul si terrà a fine giugno. “L’avanzamento verso un cessate il fuoco duraturo sarà un punto chiave nell’agenda del terzo round”, ha detto Slutsky a Rossiya-24, sottolineando che “la parte ucraina ha tempo, anche se non così tanto, per studiare i nostri termini e incontrarci a metà strada”. Il punto però è che le condizioni descritte dall’ultima proposta russa, di fatto, rappresentano una resa senza condizioni. Mosca chiede il riconoscimento internazionale dell’annessione della Crimea e di tutti i territori occupati dopo il febbraio 2022; l’Ucraina neutrale, non nucleare, e senza alcuna adesione ad alleanze militari; il divieto di qualsiasi attività militare sul suo territorio anche da parte di altri Paesi; la piena libertà della Chiesa ortodossa ucraina fedele al patriarcato di Mosca; pieni diritti alla popolazione russofona e un numero massimo di soldati nelle forze armate di Kyiv.

E proprio per questo, Andriy Yermak, capo dell’ufficio presidenziale, è partito ieri per Washington insieme alla vicepremier e ministra dell’Economia Yulia Svyrydenko e a una squadra del ministero della Difesa. L’obiettivo della visita in Usa è quella di rafforzare i legami (anche bipartisan) con gli Stati Uniti, sia a livello militare che economico, con uno sguardo alla ricostruzione e all’aumento delle sanzioni alla Russia.