I dolori del non più giovane riformista. L’eterno ritorno dell’uguale. Il dibattito che Nanni Moretti odiava tanto, è andato in scena sul Foglio in due puntate. La prima porta la firma di Tommaso Nannicini con lo sfogo che ben conosciamo, quasi da primo della classe che non ne può più di essere sfottuto e messo in un angolo (per accreditarsi agli occhi di una ipotetica platea più ampia, prova finanche a dire che pure i riformisti si fanno le canne). E Marattin che risponde il giorno dopo e con affetto gli spiega chiaro e tondo: stai ancora ad aspettare che il Pd trovi la direzione riformista? Amico mio, è una storia bella che sepolta, quel film non lo vedrai mai. E chiude con l’invito a salpare per le renziane sponde.

Mentre una parte di noi non può fare a meno di pensare alla faccia che avrebbe fatto Ultimo (che ad Aldo Cazzullo ha dichiarato di non capire quando parla la Schlein, figuriamoci i nostri amici) se fosse stato obbligato a leggere la corrispondenza, ci rendiamo conto che una testata come la nostra non può infischiarsene. Il primo istinto è di entrare nel merito. E il risoluto Marattin ne esce meglio, nonostante la citazione finale di De Gregori. Capitalizza il vantaggio della risposta.

Gli piace vincere facile quando scrive che “nel Pd di oggi non vi è, né vi potrà essere, nessuno spazio per un approccio riformista” e strappa l’applauso dell’uditorio al passaggio: “Sai benissimo che alla tua prima intervista per difendere il Jobs Act, ne seguirebbero quattro della ‘minoranza’ – più quella di Landini, ammesso che per allora non sia già nel Pd – in cui ricordano che non bisogna tagliare le radici del profondo legame che unisce sindacato e partito”.

Ma va riconosciuto che la sua è anche la posizione dialettica più semplice. Nannicini scrive non perché gli risponda Marattin (i due si sentiranno quattro volte al giorno) ma qualcuno nel Pd. È proprio la seconda puntata a ricordarci che si tratta sempre della stessa broda. È la perenne declinazione del “questo mondo non ci merita” o del “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Lo sfoggio del narcisismo riformista, il rintocco di quel senso di superiorità che ogni tanto va messo in piazzetta come prova di esistenza in vita. In fin dei conti, l’amara certezza che il dibattito non valicherà mai i confini del solito circoletto. Ed è il motivo per cui non ci tuffiamo. Il riformismo è qui e adesso. E non può che essere di battaglia. Militante. Senza sopracciò. Altrimenti resta materia buona per riempire i vuoti nelle pagine dei nostri giornali.