Siamo pieni di guerre non dichiarate ma sanguinosamente guerreggiate, in questo scorcio affannato di nuovo millennio. Come usava una volta? Si pensi all’entrata in guerra dell’Italia: 85 anni fa, il 10 giugno del 1940, Benito Mussolini si affacciò dal balcone fatale di piazza Venezia (non ancora ingombrata dalle trivelle che oggi fanno brutta mostra di sé) e, allestendo una fantasmagoria di smorfie che l’Istituto Luce ci ha fatto imparare a memoria con l’aiuto delle tv, ha reso edotto il popolo plaudente (?). Gli ambasciatori italiani avevano appena consegnato ai governi francese e inglese la fatidica dichiarazione da cui non c’è stato più ritorno. Ma è finito il tempo delle feluche che rispettosamente porgevano al Re, al Primo ministro, o a chi di dovere, la lettera ostile (battendo i tacchi rispettosamente e togliendo velocemente il disturbo perché non si sa mai) in cui veniva scritto: “Gentile Capo di Stato… Da oggi siamo in guerra con Lei. Cordiali saluti”.

Oggi Trump, per posture e mimica facciale sicuramente non secondo al Duce italiano, sembra tentato dal diventare parte in causa contro il regime degli ayatollah, al fianco di Netanyahu, che ha intrapreso un’azione di guerra molto robusta contro lo stesso obiettivo, eliminando chirurgicamente leader e siti nucleari. Non ci risulta che gli eventi siano stati oggetto di scambi fra diplomatici dei Paesi belligeranti; al più qualche ringhio su X, TikTok e, quando va bene, Al Jazeera.

Il mondo occidentale si è consumato le corde vocali per dire “no” alla guerra, per mettere in guardia sul pericolo nucleare, per auspicare, scongiurare, protestare. Ma l’ha fatto esercitandosi dentro una nebbiolina equivoca, perché in fondo si aspetta la liquidazione della minaccia nucleare iraniana, purché compiuta da altri. Insomma: se lo fa Netanyahu mettiamo un po’ di sordina. Certo, è un po’ più difficile stare in silenzio se scende in campo Trump, ma quel che conta è il risultato. Per cui il paradosso a cui si assiste è “no” alla guerra, ma qualcuno la faccia per rimuovere il problema della guerra. L’ha ammesso, con il candore teutonico che gli si confà dall’alto del suo metro e 98, il cancelliere tedesco Merz: “Il lavoro sporco lo farà per noi Netanyahu”.

Siamo alla “guerra per relationem”, una forma di belligeranza che trova applicazione ormai da tempo senza le guerre dichiarate. Prendiamo il caso Ucraina: definita dai russi “operazione militare speciale”, eppure tragicamente reale con perdite immani, rappresenta un caso da manuale di conflitto per procura che ha visto l’Europa fornire finanziamenti, armi e forme di assistenza per contrastare l’occupazione russa del territorio di un Paese sovrano, senza tuttavia intervenire in via diretta. Non ci proviamo neppure a entrare nel labirinto dei ragionamenti pro e contro questo atteggiamento, per carità.

Registriamo, però, che il “per relationem” è diventato la cifra generale dei rapporti messi in campo dall’Europa e dai suoi Stati sovrani in molti dossier scomodi. Si prenda ad esempio la questione migratoria: le democrazie europee, per non impattare con le opinioni interne sulla questione dei flussi migratori, hanno provato a giocare la carta dell’“occhio non vede, cuore non duole” per sbarazzarsi degli aspetti emotivamente più complessi. Il ragionamento è stato questo: “Per evitare che arrivino sulle nostre coste o sui nostri valichi, facciamo che qualcuno li fermi prima.  Come, non lo vogliamo sapere”. Così si è fatto, utilizzando le Guardie costiere libiche e tunisine (dietro congruo pagamento) per bloccare i flussi verso le coste meridionali italiane; l’Ue addirittura lo fece con la Turchia nel 2016 (con prospettiva di procedura d’ingresso in Europa e pagamento di 6 miliardi di euro, 3 subito e 3 a lavoro finito) provocando esiti disastrosi. L’Italia ci riprova con la variante “albanese” dell’accordo Meloni-Rama firmato nel novembre 2023 per accogliere, in centri appositamente edificati dal governo italiano in suolo schipetaro, fino a 36mila migranti irregolari all’anno, manufatti che restano, per il momento, controversa meta di poche unità in un perpetuo andirivieni di navi nell’Adriatico; per non parlare del Regno Unito e della sua fissa per le mete ruandesi.

È la modalità ibrida dell’interposta persona, del “per relationem”, che si propone come ultima risorsa quando non si riesce ad esprimere un protagonismo, un’assunzione di responsabilità. È la modalità “Endrigo”, un cantautore italiano di sessant’anni fa e più, dimenticato persino dalle teche Rai, che cantava: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, e tu sei lontana, lontana da me”. Appunto.