Sorte ingrata quella di Luigi Longo, leggendario comandante “Gallo” delle Brigate internazionali nella guerra spagnola, principale dirigente comunista nella Resistenza, successore di Togliatti e quarto segretario del Partito comunista italiano dall’agosto del 1964 al marzo del 1972. Con un mandato stretto tra quelli dei due principali e più celebri leader del Pci, Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer, e costretto dall’ictus che lo colpì alla fine del 1968 a delegare proprio a Berlinguer buona parte dei compiti dirigenziali. Longo sembra destinato a passare alla storia come un segretario di transizione: non solo un “ponte” tra i due leader più amati dal popolo comunista, ma anche tra due generazioni, quella dell’esilio, del Comintern, della guerra e quella successiva cresciuta nel dopoguerra. Come se il suo compito principale fosse quello di “sorvegliare il bidone” mentre i dirigenti si davano battaglia nel principale scontro congressuale nella storia del Pci nella Repubblica, l’XI congresso, svoltosi a Roma nel gennaio 1966, e mentre decidevano chi incoronare come primo segretario della nuova generazione, corsa riservata ai cavallini di razza Berlinguer, che fu prescelto, e Giorgio Napolitano.
E’ un verdetto ingeneroso. Longo non fu un “segretario per caso” e non esercitò un ruolo burocratico. Per certi versi, al contrario, rappresenta un tentativo unico, originale e fallito, di coniugare l’indirizzo togliattiano della “via italiana al socialismo” con il mantenimento di una vigorosa spinta anticapitalista, venata sino alla fine da suggestioni rivoluzionarie, sia pure riadattate alla realtà della seconda metà del ‘900 e spogliate di ogni fantasia insurrezionale.
Dopo l’incontro dell’aprile 1968 con una delegazione del Movimento studentesco romano, della quale faceva parte anche Oreste Scalzone, pubblicò su Rinascita un lungo articolo di estrema apertura al Movimento, in contrasto con la diffidenza che gran parte del Pci, in particolare ma non solo Giorgio Amendola, nutriva invece apertamente. A porte chiuse Longo, nel resoconto di Scalzone, si spinse anche oltre, con affermazioni inimmaginabili per un leader del Pci dell’epoca: “Un movimento rivoluzionario come il nostro avanza solo se c’è confronto di opinioni e opposizione. Invece alcuni compagni si spaventano se qualcuno fa il contraddittore”. E soprattutto: “Le riforme non sono riformiste in sé: lo sono solo se non diamo loro una chiara prospettiva rivoluzionaria”.
In parte c’era di sicuro una certa piaggeria. L’obiettivo era spingere il Movimento, come in effetti avvenne, a indicare nelle imminenti elezioni politiche la “scheda rossa” e non l’astensione. Ma non si trattava solo di questo. Nell’accezione di Longo le riforme dovevano davvero essere la leva per “una larga mobilitazione in vista di un rovesciamento sociale radicale”. Non a caso, come presidente del Pci, fu l’unico tra i principali leader del partito a muovere critiche severe contro la strategia berlingueriana del “compromesso storico” e dell’accordo con la Dc.
Nato nel 1900, veniva da una famiglia contadina della provincia di Alessandria, e l’esperienza della povertà dei contadini di inizio secolo non la avrebbe mai più dimenticata: nessuno tra i segretari comunisti è stato attento come lui alle esigenze e alle sofferenze dei contadini. Costretto dalla miseria a trasferirsi con la famiglia a Torino si era iscritto al Politecnico, ma sacrificò gli studi prima per la guerra poi per la militanza con il gruppo dell’Ordine nuovo e, dopo la scissione, nel Pcd’I.
Dopo l’instaurazione del regime la sua parabola fu simile a quella dei dirigenti comunisti del suo tempo. Quando emigrò in Francia nel 1926, come capo della Federazione giovanile comunista, era già stato a Mosca nel 1922, aveva conosciuto Lenin e passato al ritorno un anno in carcere a San Vittore. Poi la spola tra Mosca e Parigi, l’ascesa ai vertici del Comintern, la guerra di Spagna, la difesa di Madrid, la fuga in Francia dopo la sconfitta, l’arresto a opera del regime di Vichy e il confino a Ventotene, il ritorno in Italia alla testa delle Brigate Garibaldi, i partigiani rossi. Per anni ha circolato la diceria, quasi certamente infondata, secondo cui sarebbe stato lui a uccidere Mussolini.
Longo era un uomo d’azione e in buona parte sui meriti di comandante sul campo si basava la sua popolarità nel Movimento comunista e il suo enorme peso nel partito del dopoguerra. Non era un grande oratore, alla Camera organizzava e dirigeva le truppe parlamentari ma i suoi discorsi non facevano epoca. Era schivo, riservato, silenzioso.
Appena indicato come successore di Togliatti chiarì le cose: “Sarò un segretario, non un capo”. Segretario per nulla passivo però. Decise lui di rendere pubblico il cosiddetto Memoriale di Yalta, vergato da Togliatti poco prima della scomparsa e tenuto in un primo momento segreto. Era il manifesto della via italiana al socialismo, senza violenza e attraverso l’accettazione della democrazia, ma conteneva anche critiche nei confronti dell’Unione sovietica per l’epoca molto severe, tanto più tenendo conto di chi le muoveva e di quanto Togliatti fosse legato all’Urss. In particolare veniva presa di mira “la difficilmente spiegabile lentezza e resistenza nel tornare alle norme leniniste che assicuravano, nel partito e fuori di esso, larga libertà di espressione e dibattito”.
La diffusione del Memoriale fu un gesto di notevole coraggio e di clamorosa rottura con una pratica non solo staliniana ma profondamente radicata nell’intera cultura del Pci, al quale seguirono altre prese di posizione sull’integrazione europea e sul policentrismo del movimento comunista.
Ma soprattutto fu proprio Longo il principale difensore del nuovo corso cecoslovacco di Dubcek e fu lui a decretare la prima clamorosa presa di distanza del Pci dall’Urss, dopo l’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto 1968.
Nella battaglia dell’XI congresso “Gallo” fu alleato e decretò la vittoria di Amendola contro la sinistra di Ingrao, sia pure su una posizione, come hanno dimostrato gli studi recenti, di mediazione maggiore di quanto non apparisse all’epoca. Su quello schieramento pesarono sia considerazioni di carattere internazionale, la paura cioè che un vittoria degli ingraiani potesse sbilanciare il partito italiano a favore della Cina nello scisma che divideva il movimento comunista internazionale, sia la convinzione che, in politica interna, l’urgenza principale fosse rompere l’isolamento in cui versava il Pci aprendo a un confronto anche con le forze di sinistra più centriste. Longo tuttavia frenò, almeno in parte, l’epurazione della sinistra sconfitta. Ingrao rimase nella direzione del partito. Il giovane Berlinguer, sospetto di eccessive simpatie per la sinistra, fu invece momentaneamente declassato a segretario del Lazio.
Dopo l’ictus e la successiva ischemia, alla fine del 1968, Longo non fu più in grado di gestire davvero il partito di cui era segretario. Se ne occupò il delfino Berlinguer, indicato con la nomina a vicesegretario nel congresso del 1969, che però non era ancora segretario a tutti gli effetti. Poteva guidare il partito, non indicare la strategia politica di lungo corso. Il risultato fu che il Pci si presentò all’appuntamento con la principale insorgenza nella storia repubblicana, la rivolta operaia e sociale della fase 1969-73, con una guida incerta e dimidiata. Come si sarebbe orientato in quella fase cruciale il Pci se la guida fosse stata saldamente nelle mani di un segretario che aveva mostrato evidenti simpatie per il ‘68 però può essere oggetto solo di supposizioni. È possibile però che molte cose sarebbero state diverse perché dalla strategia indicata alla fine di quella fase dal nuovo e giovane segretario, il “compromesso storico” , Luigi Longo non fu mai tentato.