Roberto Castelli, ingegnere meccanico specializzato nel controllo del rumore nelle aziende, brianzolo doc di Lecco, ministro della Giustizia nel secondo e nel terzo governo Berlusconi, leghista di stretta osservanza fin dalla prima ora: è lui il principale “responsabile” della perdita di fiducia dei cittadini nella magistratura italiana e dei recenti scandali che hanno travolto il Consiglio superiore della magistratura. Ad iniziare, ovviamente, dal ‘Palamaragate’ che ha avuto l’effetto di determinare le dimissioni di ben sei componenti togati a Palazzo dei Marescialli e di far espellere con ignominia dalla magistratura Luca Palamara, ex zar delle nomine e degli incarichi.

Cosa aveva fatto di così terribile Castelli? Aveva messo la firma su due riforme “sciagurate” per le toghe: l’introduzione della temporaneità degli incarichi direttivi e la modifica del sistema elettorale del Csm, con la previsione del maggioritario uninominale. Fortemente voluto nel 2001 da Umberto Bossi a via Arenula, pur senza alcuna competenza giuridica, Castelli avrebbe allora portato nel pantano la magistratura. Erano quelli anni di scontri furiosi fra politica e toghe. I commentatori ricordano sempre le “leggi ad personam” approvate in quel periodo dal Parlamento perché il premier Silvio Berlusconi, sotto procedimento penale un giorno sì e l’altro pure, era alla disperata ricerca di scappatoie per uscire dal gorgo giudiziario in cui l’avevano precipitato. Non è dato sapere se anche alla base di queste due riforme ci fossero i guai giudiziari di Berlusconi. Fatto è che, come ricordato ieri a Cagliari dal pm romano Eugenio Albamonte, segretario generale di Area, nella relazione di apertura del terzo congresso nazionale della magistratura progressista, queste due riforme hanno stravolto la magistratura, favorendo le migliori condizioni per la cena dell’hotel Champagne dove si doveva scegliere il nuovo procuratore della Capitale.

Albamonte ne ha ricostruito gli effetti micidiali. Fino al 2002, anno dell’introduzione della temporaneità degli incarichi direttivi, i magistrati venivano nominati a capo di una Procura o di un Tribunale per anzianità.
Era sufficiente aspettare il proprio turno per essere nominati dal Csm. Non bisognava fare assolutamente nulla: il magistrato, infatti, doveva solo non avere “demeritato”. Con Castelli l’anzianità lasciò il campo al merito. Ma le conseguenze furono deleterie. La temporaneità delle incarichi mise in moto il “carrierismo sfrenato” dei magistrati che pur di prendere una nomina diventarono pronti a tutto. La dirigenza venne intesa come “privilegio”, con la creazione di carriere parallele di toghe che saltavano da un incarico all’altro, senza soluzione di continuità. Una casta nella casta.
Le chat di Luca Palamara hanno messo plasticamente in luce le pressioni, le raccomandazioni, e le contro raccomandazioni per raggiungere l’agognato incarico. E qui si innesta l’altra riforma, varata nel 2006, del sistema elettorale del Csm. Tale riforma ha dato un potere senza precedenti alle correnti della magistratura che iniziarono dunque a scegliere i candidati per Palazzo dei Marescialli, supportando poi la loro elezione. Il collegio unico nazionale rese impossibile per un magistrato candidarsi senza l’aiuto del gruppo associativo.

I togati eletti al Csm erano così in uno stato di sudditanza nei confronti dei capi delle correnti che avevano garantito la loro elezione. La forte concentrazione di potere determinò un rapporto strettissimo fra eletto ed il suo sponsor. Il Palamara di turno. Il clientelismo, con la logica di mutualità e scambio fu l’inevitabile punto di arrivo e riguardò tutti. Nessun gruppo associativo, ha ricordato Albamonte, può tirarsi fuori da questo sistema. Come uscirne? Albamonte non ha la soluzione in tasca. Ed ha rivolto un appello alla politica e al ministro della Giustizia Marta Cartabia. La nemesi: la magistratura che chiede aiuto alla tanta vituperata politica. «Il legislatore metta mano alle riforme prima delle elezioni per il rinnovo del Csm (previste per il prossimo anno, ndr): è in gioco la sua sorte. Un Csm eletto con l’attuale sistema sarebbe delegittimato fin dal primo giorno», ha puntualizzato Albamonte. È importante che il Csm «torni ad essere custode dell’ autonomia e indipendenza» delle toghe, occupando il posto che la Costituzione gli ha assegnato. La Guardasigilli, nel suo indirizzo di saluto al congresso di Area, ha tranquillizzato Albamonte annunciando che nei prossimi mesi «sarà fatta la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario», ma “la fiducia” nei confronti delle toghe da parte del cittadino è stata logorata. Per questo, ha affermato la ministra «non confidiamo in un effetto taumaturgico delle riforme, che di certo servono, ma occorrerà un lavoro in cui ciascuno, goccia a goccia, porta il suo fardello».

Se Albamonte ha chiesto aiuto alla politica, la ministra ha allora chiesto aiuto alle toghe: «Sarà decisivo anche il processo di autoriforma che è già in atto nella magistratura». I «fatti sconcertanti ci sono, ma – ha sottolineato ancora Cartabia – non devono distogliere lo sguardo dal lavoro di numerosi magistrati che operano nel loro quotidiano». Oggi il congresso prevede due appuntamenti importanti. Il primo dedicato proprio alle riforme alle rifondazione etica della magistratura con gli interventi di Giulia Bongiorno, del togato Giuseppe Cascini, del professore di diritto costituzionale dell’Università di Torino Enrico Grosso, della vice presidente del Senato Anna Rossomando, del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, e del sottosegretario Francesco Paolo Sisto. Il secondo, invece, sulle ragioni del no delle toghe progressiste ai referendum sulla giustizia. Domani, infine, conclusione dei lavori.