L’iniziativa presa ieri da Mattarella è stata forte. Il Csm ha sbrigativamente fatto bocciare da un suo Ufficio – 4 a 2 – la norma sulla improcedibilità? Il Presidente della Repubblica, nella sua veste di Presidente del consiglio superiore della magistratura, ieri ha chiesto all’organo che governa le toghe di prendere in esame l’intero testo della riforma Cartabia. Sottolineando – se ve ne fosse bisogno – di trovarci in presenza di una riforma di primaria importanza, il Colle ha preteso dal Csm un’attenzione in più, non solo rituale ma di sostanza. Facendo recapitare senza timori di fraintendimenti l’indirizzo della sua moral suasion.

Per farlo, ha sottolineato due elementi quali-quantitativi: la riforma va valutata nel suo complesso e non sezionandone una parte ad uso e consumo. E poi non la si può far trattare dalla sola sbrigativa sessione della sesta commissione del Csm (l’Ufficio legislativo, per intenderci) ma necessita del parere motivato della plenaria. Che va convocata ad hoc. Per capirci: non si può fare lo spezzatino. Non si può dire che l’improcedibilità è un problema mentre altri punti piacciono di più. Non siamo al menu del ristorante: la Riforma Cartabia è una e deve essere valutata da un parere integrale, univoco e ben motivato. Il peso del Quirinale, entrato in quella blindatura tutta particolare che gli conferisce il Semestre bianco, controbilancia tutti i mal di pancia con cui fino a ieri l’Anm prima e il Csm poi avevano tentato la zampata. Fa capire, sia pure proceduralmente, quale sia la posta in gioco e da che parte siede Sergio Mattarella. Liturgie? Mica tanto. Perché c’è da considerare anche il calendario.

Il vice presidente del Csm Davide Ermini cerca di verbalizzare l’accaduto: «Il Presidente ha ritenuto opportuno che fosse posticipata, anche solo di pochi giorni, l’iscrizione della pratica all’ordine del giorno del plenum in modo da completare la proposta di parere con riguardo al complesso della riforma». I pochi giorni però non sono pochi. Dal Csm ci informano che la seduta plenaria prevista per la settimana prossima non potrà avere all’ordine del giorno la disamina del pacchetto di riforme. Si tratta, messa da parte la sesta commissione del Csm, di incaricarne il Centro Studi, di coinvolgere tutti gli uffici dedicati al legislativo prima ancora dell’intero assetto della plenaria. Andiamo a settembre. «Impossibile convocare il plenum nelle due settimane centrali di agosto», ci confidano dagli uffici di Palazzo dei Marescialli. Il rinvio a settembre stride con la questione di fiducia che è stata posta dal governo sul provvedimento, su richiesta della stessa ministra Cartabia.

Draghi vuole chiudere entro il 5 agosto la querelle, il voto di fiducia potrebbe essere posto in aula nella sessione del 30 luglio. Ecco che prende forma la mossa del cavallo del Colle: mentre il Csm studia le carte, la riforma dovrebbe già essere stata votata dal Parlamento. Ermini prova a precisare, comunicando senza rassegnarsi: il Csm dovrà «offrire al Parlamento una approfondita e completa valutazione tecnica». Quella che però il calendario oggi esclude. A meno che non vi sia non solo un’adunanza straordinaria del Csm in plenaria ad agosto ma anche una indefessa attività degli uffici, nottetempo.

Si incarica di suonare l’adunata l’ex capo dell’Anm, Eugenio Albamonte. Per non prendersela con Mattarella, il leader delle toghe progressiste di Area fa il giro largo: «Non si vuole che gli equilibri politici vengano turbati dalle valutazioni tecniche di chi il processo lo conosce. E questa non è una bella pagina, soprattutto per un governo istituzionale di questa caratura». Poi concede: «Siamo costruttivi, non si tratterebbe di bocciare la riforma ma di indicare delle alternative». La solita vecchia impertinenza della tripartizione dei poteri non demorde. «Il parere riguarda il punto della riforma che assume un valore nevralgico – insiste Albamonte – Dire non parliamo di questo, ne parliamo dopo con tutto il resto, mi sembra come voler buttare la palla in tribuna. Non è un atteggiamento che ha una sua comprensibilità se non a ragionare in termini di difficoltà del governo».

Eppure è tutto chiaro, squadernato sotto gli occhi di tutti: il presidente della Repubblica ha detto con chiarezza che questo golpe non s’ha da fare. La Riforma che la giustizia italiana attendeva è giunta ai nastri di partenza. Non la si riuscirà a fermare fintanto che dal Parlamento a Palazzo Chigi al Quirinale ci sarà un’intesa che guarda a via Arenula con occhi ben diversi dal passato.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.