Mentre Nancy Pelosi, dopo l’appoggio a Kiev, sfida la Cina atterrando sull’isola di Taiwan in nome dell’internazionalismo liberale, l’ex presidente Donald Trump, che vola nei sondaggi, afferma che “l’Ucraina avrebbe dovuto rinunciare alla Crimea ed impegnarsi a non entrare nella Nato per evitare di essere invasa dalla Russia e dialogare con Putin che voleva arrivare ad un accordo”. E’ evidente che non esiste più traccia di una politica estera americana bipartisan e ciò rende problematico sposare le ragioni atlantiche come fossero entità stabili nel tempo. La politica americana oscilla tra la volontà di potenza propria del “momento unipolare” e il motto di Trump dell’America First quale risposta ai costi insostenibili derivanti dall’essere la sola forza alla guida della polizia globale. L’ordine internazionale liberale garantito dall’unica superpotenza egemonica comporta, come avverte Charles A. Kupchan (Isolationism, Oxford University Press, 2020), una consuetudine al ricorso alle armi per cui “tra il 1992 e il 2017, gli Stati Uniti hanno effettuato 188 interventi militari, cioè hanno quadruplicato gli interventi bellici rispetto all’era della Guerra Fredda”.

L’idealismo della guerra democratica per l’esportazione dei diritti si piega al principio di realtà che, valutando sempre i costi e le conseguenze della pax americana, suggerisce il percorso di un ridimensionamento. Certo, come lamenta Robert Gilpin (No One Loves a Political Realist, in “Security Studies”, 1996, n. 3), “nessuno ama un realista politico” che accantona i valori e misura gli interessi. Mentre, con la scomparsa del marxismo e la fine dell’Urss, i vincitori annunciano che “il millennio liberale della democrazia, dei mercati sfrenati e della pace è alle porte” (Gilpin, cit.), resiste sul fronte della teoria chi non cede facilmente alle lusinghe dell’ottimismo. Si tratta, appunto, di “realisti e marxisti i quali credono che il mondo sia guidato principalmente dall’interesse; le idee sono importanti nelle politiche solo nella misura in cui servono gli interessi materiali ed egocentrici di attori potenti, o almeno non contrastano con interessi importanti”.

Come il ridimensionamento strategico sovietico è riconducibile, oltre all’impatto del “nuovo pensiero” di Gorbaciov, all’impossibilità di sostenere i costi economici del duopolio geopolitico “ragionevole”, così il restringimento dell’influenza americana, ben visibile con la presidenza di Trump, fa seguito al percepibile declino della supremazia militare ed economica a stelle e strisce. L’America non può realisticamente sottrarsi agli imperativi di una strategia di ridimensionamento e di accomodamento negoziale alla luce di stringenti vincoli economici che impediscono di sostenere, in una escalation prolungata, una competizione militare senza quartiere con la Russia e con la Cina.

Come scrive Kupchan (Isolationism, cit.), “l’allargamento della NATO ha incautamente e inutilmente contribuito a una nuova era di confronto con la Russia e ha imposto agli Stati Uniti un’espansione illimitata di impegni strategici dal discutibile valore”. L’ambizione imperiale non si è però consolidata, e questo non per un difetto di volontà, che anzi ha visto l’America spingersi in competizioni belliche (alcune necessarie secondo gli analisti e altre errate dal punto di vista strategico), in guerre impossibili da vincere come quelle in Medio Oriente. All’origine del fallimento del disegno imperiale sta proprio la dottrina per cui, sulla base di una “liberal intolerance” che spinge ad una riesumazione della consunta categoria di “totalitarismo” da sbattere in faccia al nemico, agli Usa in quanto potenza del bene compete la missione di costruire ovunque la democrazia con le armi.

Nota ancora Kupchan che “cercare di trasformare l’Afghanistan e l’Iraq in Ohio potrebbe essere stato un obiettivo lodevole, ma gli Stati Uniti si sono esauriti proprio cercando di raggiungere l’irraggiungibile. Questa arroganza ha prodotto paradossalmente l’effetto opposto, ha accelerato la fine della Pax Americana incoraggiando gli Stati Uniti a superare il proprio limite”. Al dominio militare esibito dall’America si sono opposte nuove rivendicazioni di potenza (ambizioni russe, iraniane, ecc.) cresciute nelle aree più diverse per indebolire la spinta egemonica dell’Impero. Inoltre i costi della supremazia e della instabilità provocata dalle guerre infinite hanno prodotto conseguenze sul piano del consenso interno per cui, dai simboli espansivi di un “global guardian” a stelle e strisce, si approda con Trump ad un “isolationist, unilateralist, and protectionist language” (Kupchan).

Con la crisi ucraina c’è stato un ritorno alle maschere edificanti dell’idealismo politico e con il rilancio della suggestione antica di una “League of Democracies” che ha denaro e armi per dirigere le dinamiche del sistema globale. Sul piano teorico questo democraticismo comporta, rileva Robert Kagan (Of Paradise and Power. America and Europe in the New World Order, New York, 2004), l’assunzione che “nel mondo di oggi, la forma di governo di una nazione, non la sua ‘civiltà’ o la sua posizione geografica, può essere il miglior elemento capace di predire il suo allineamento geopolitico”. La credenza di un automatico allineamento delle democrazie, che sorreggono con le loro forze economiche e militari l’asse euroatlantico nelle simbologie del dominio, nella gestione delle crisi internazionali, è però alquanto gracile. La posizione dell’India nella censura di Mosca per la crisi ucraina non collima affatto con quella delle altre democrazie. E autonome considerazioni di potenza valgono anche nelle scelte di Brasile o Argentina. L’allineamento geopolitico segue strade diverse dalla forma di governo indicata come canone di un sistema di alleanze durevole.

Le scelte drastiche di Biden, i voli spericolati di Pelosi per provare ad “abbaiare” anche verso Pechino, non intendono giungere ad un pacifico e razionale adeguamento della politica estera ai mutati rapporti di potere (ascesa della Cina, richieste geopolitiche di potenze che reclamano uno spazio autonomo). La discrepanza tra tendenze storiche e assunzioni ideologiche è enorme. Adottando la lente della longue durée, Charles A. Kupchan (No One’s World, Oxford University Press, 2012) fotografa la situazione effettuale. “Il mondo si sta dirigendo non solo verso il multipolarismo, ma anche verso molteplici versioni della modernità: un panorama politicamente variegato entro il quale il modello occidentale rappresenterà solo una delle tante concezioni di ordine interno e internazionale che sono in competizione tra loro. Non solo le autocrazie ben governate potranno competere con le democrazie liberali, ma anche le potenze emergenti che hanno regimi democratici si separeranno regolarmente dall’Occidente. Forse la sfida principale per l’Occidente e per i paesi in via di sviluppo è quella di gestire questa svolta globale e arrivare pacificamente al prossimo mondo. L’alternativa è un’anarchia competitiva che si raggiunge per difetto, quando i molteplici centri di potere e le diverse concezioni dell’ordine che essi rappresentano si contendono il primato”.

Nel “mondo post-americano” convivono dunque “multiple versions of modernity” e la saggezza strategica dell’impero in dismissione dovrebbe suggerire di provare con lungimiranza a controllare i passaggi di una transizione pacifica che richiede di allargare i soggetti della governance globale alla luce della nuova dislocazione dei rapporti di forza. Più che minacciare, un gendarme che viene sfidato nella sua supremazia tecnologica, economica e militare dovrebbe scommettere sull’affermazione di un mondo cogestito da forze multipolari ragionevoli e quindi in grado di arginare la suggestione bellica. Come argomenta William C. Wohlforth (No one loves a realist explanation, “International Politics”, Vol. 48, 4/5), gli Usa devono cioè commisurare il loro dominio nel sistema con il consolidamento di contro-coalizioni che cercano anch’esse l’inclusione nella governance globale e regionale sulla base di una aggiornata distribuzione dei poteri. Da qui l’istanza di accantonare i valori, la democrazia come bandiera ideologica per coprire la prosaica gendarmeria globale, e, anche per l’Impero, “la necessità di riconoscere sempre la realtà del potere e di adattarsi ai mutevoli rapporti di potere”.

Quando titolò “Il secolo americano è finito”, il Washington Times registrava una nuova dislocazione dei rapporti di forza che imponeva di ampliare il cerchio delle potenze per rendere più allargata una governance globale che andava disegnata oltre ogni polarità democrazia-autocrazia. Bisogna insomma prendere atto, sul piano strategico, che “anche le potenze democratiche in ascesa, come l’India e il Brasile, non sono certo delle strenue sostenitrici del campo occidentale. Al contrario, rompono regolarmente con gli Stati Uniti e l’Europa in materia di geopolitica, di commercio, di ambiente e su altre questioni, preferendo schierarsi con gli Stati in ascesa, democratici o meno. Gli interessi contano più dei valori” (Kupchan, No One’s World, cit.).

Il filone idealista-democratico americano da tempo guarda con sospetto ad ogni mossa europea che appaia scettica sull’unipolarismo statunitense, ritenendola un grave danno sul terreno dello scontro culturale per l’egemonia. A questo proposito Kagan (Of Paradise and Power, cit.) ha scritto che “per affrontare le odierne minacce globali, gli americani avranno bisogno della legittimità che l’Europa può fornire. Ma gli europei potrebbero non fornirla. Nel loro tentativo di limitare la superpotenza, perderanno di vista i crescenti pericoli presenti nel mondo, che sono di gran lunga maggiori di quelli posti dagli Stati Uniti. Nel loro nervosismo dinanzi all’unipolarità, possono dimenticare i rischi di una multipolarità in cui le potenze non liberali e non democratiche prevalgono sull’Europa nella competizione globale”.

Le mosse arcigne imposte da Biden nella gestione dell’emergenza ucraina hanno come obiettivo anche quello di richiamare all’ordine un’Europa che negli anni precedenti dava segnali di eccessiva autonomia. Anche la competizione muscolare con la Cina obbedisce alla logica di una radicalizzazione delle relazioni internazionali per conservare l’egemonia del campo democratico ostile alle autocrazie. Planare su Taiwan con la maschera di una “liberal intolerance” indifferente al multilateralismo e alla trattativa negoziale è nondimeno un segno di cecità geopolitica dai risvolti allarmanti.