La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, risalente a ormai sei anni fa, è stato il primo passo.
Le risposte alternative che lo Stato, attraverso il Sistema Sanitario Nazionale, oggi offre – le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) – restano però gravemente deficitarie e insufficienti tanto, a giudizio di alcuni esperti del settore, da poter diventare esse stesse in prospettiva un grave problema. Per questo serve una terza via.

La politica, sostenuta da chi vive ogni giorno la dimensione della malattia mentale ha in tal senso cominciato a individuare i complessi ma possibili e necessari tentativi di cura e integrazione sociale dei malati – anche se detenuti – con una proposta di legge in discussione alla Camera, incentrata sulla introduzione sperimentale del cosiddetto budget di salute per la realizzazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati, prima firmataria l’onorevole Celeste D’Arrando. A risvegliare un dibattito tanto sotterraneo quanto mai sopito è stato nelle ultime settimane il Partito Radicale riaccendendo i riflettori su una piaga in realtà atavica: la detenzione in carcere di persone affette da patologie psichiatriche. «Il problema della salute mentale in carcere coinvolge migliaia di cittadini e esige una vostra urgente e concreta risposta», si legge nell’appello radicale ai ministri Cartabia e Speranza.

Nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica e oltre il 50% dei detenuti assumono psicofarmaci. I dati ci dicono che i detenuti con dipendenze da sostanze psicoattive rappresentano il 23,6%, con disturbi nevrotici il 18%, il 6% con disturbi legati all’abuso di alcol e il 2,7% con disturbi affettivi. Nell’appello del Partito Radicale viene citata, tra l’altro, una dichiarazione significativa del dottor Francesco Ceraudo, per 25 anni Presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria: «Nelle carceri italiane – ebbe a dire il medico – si entra puliti e si esce dipendenti. La dipendenza da psicofarmaci fa comodo a tutti. Per il direttore del carcere e la polizia penitenziaria è utile che il detenuto se ne stia tutto il giorno accucciato sul materasso, non si metta a urlare, sia passivo, senza vitalità». Ed è esattamente questa la strada che conduce nell’attuale buco nero dal quale a giudizio di numerosi esperti si deve in ogni modo provare ad uscire.

L’inclusione sociale pare sia al tempo stesso l’obiettivo e la via d’uscita da percorrere. Ce lo spiega lo psicoterapeuta Bruno Pinkus, fondatore assieme alla collega Angela D’Agostino, trentuno anni fa, della Gnosis, cooperativa sociale che, in una splendida tenuta affacciata su Roma, quotidianamente anima due comunità terapeutiche. Al loro interno anche casi di persone, per lo più giovani, riuscite a convertire la propria condanna in una pena alternativa: «Il peggio che può capitare a una persona affetta da queste patologie – ci spiega Pinkus – è l’essere identificati come furfanti. Così si va solo ad amplificare il divario sociale che già li riguarda perché di fatto si mischia la loro condizione con quella di persone e situazioni che ne peggiorano ulteriormente la qualità della vita».

«Eppure ad avere accesso alle comunità terapeutiche non è più del 5% della popolazione carceraria affetta da patologie mentali», ci spiega il professor Angelo Righetti, psichiatra, consulente dell’Oms per le disabilità mentali e, tra l’altro, amico d’infanzia e concittadino del rocker Vasco Rossi, a sua volta sostenitore delle idee dello psichiatra.
Il nodo centrale di questa vicenda, denuncia Righetti, è che «il Sistema Sanitario Nazionale non ha preso mai troppo sul serio la cura delle malattie mentali nelle carceri. I Dsm (Dipartimenti di salute mentale) sono al di fuori dei penitenziari e tendono a non entrare in contatto con le carceri che pure sono istituzioni del territorio. C’è un problema di leggi e indirizzi esistenti che vengono disattesi» spiega ancora Righetti. «Si dovrebbero cambiare la gran parte dei comportamenti detentivi del carcere e in ogni caso si dovrebbe prevedere la possibilità che le cure vengano gestite in ambiti psico-educazionali (come le comunità appunto ndr)».

«È davvero complicato – aggiunge il professore di Zocca – perché i servizi in carcere non sono particolarmente presenti e questo impartisce un danno suppletivo alle persone con disabilità mentale: una sorta di doppia pena che si avvicina alla tortura». È esattamente per uscire da questo cul de sac che ha senso, secondo Righetti, puntare sui cosiddetti budget di salute: «Con la possibilità per i detenuti di accedere a percorsi personalizzati, fino ad arrivare a una reale permeabilità tra carcere e comunità civile. Una contaminazione positiva che potrebbe rappresentare l’onda lunga della grande utopia trasformata in realtà che fu rappresentata dalla legge Basaglia con la quale nel 1978 furono chiusi i manicomi».