L'intervista
Marciani: “Il Ponte sullo Stretto? 24 miliardi per un’opera simbolica, non strategica. La logistica è un termometro di recessione”

Massimo Marciani, presidente del Freight Leaders Council – associazione che lavora sulla promozione della logistica sostenibile – lo dice con chiarezza «La logistica è il primo segnale di una recessione, ma raramente viene ascoltata. Quando i flussi rallentano, è già troppo tardi per intervenire a monte».
Marciani guida un think tank tecnico apartitico, dedicato alla promozione della logistica sostenibile. Ed è anche alla guida dell’Osservatorio Nazionale per la Tutela del Mare, da cui osserva l’impatto delle tensioni globali sui traffici. A partire da quelle generate dalla politica commerciale americana. Il tema dei dazi, oggi tornato al centro del dibattito, è per lui un acceleratore di crisi. «Ogni dazio è una barriera. E ogni barriera rallenta le merci, le devia, le rende più costose. Questo incide sulla competitività, sul lavoro e, prima ancora, sui flussi logistici. Noi lo vediamo subito: meno ordini, meno trasporti, meno attività».
Secondo Marciani, l’ipotesi di dazi permanenti, come il 10% ventilato da Trump, avrebbe un impatto sistemico su un Paese come l’Italia, fortemente dipendente dalle importazioni di materie prime e dalla capacità di esportare prodotti ad alto valore. «Noi trasformiamo ciò che non abbiamo. E lo facciamo bene. Ma se il sistema si chiude, le imprese del made in Italy perdono il vantaggio competitivo e si disgrega la filiera». I primi effetti sono già visibili: «Le rotte si accorciano, si cercano fornitori esenti da dazi, si torna a produrre vicino ai mercati di consumo. Ma questo penalizza l’Italia, perché perdiamo traffici e quindi anche occupazione. Soprattutto nella logistica e nell’assemblaggio, che vengono delocalizzati». Le ripercussioni, spiega, si avvertono in tutti i settori-chiave: automotive, farmaceutico, agroalimentare e moda. «Prendiamo l’industria farmaceutica: molti principi attivi arrivano da Cina e India. Se ci sono dazi o rallentamenti doganali, le aziende devono fare scorte, aumentano i costi e perdono efficienza. O pensiamo al fast fashion, che si riorienta verso Paesi più vicini come Marocco e Turchia, con impatti diretti sulle catene logistiche globali».
L’elettronica è un altro settore sensibile, colpito dai dazi sui semiconduttori. «Le tensioni stanno creando più danni che benefici. Il caso Boeing è emblematico: i dazi stanno danneggiando anche gli stessi Stati Uniti». Per Marciani il vero nodo non è solo l’impatto congiunturale, ma l’assenza di una strategia di lungo periodo, soprattutto in Italia. «Stiamo drogando l’economia con il PNRR, ma senza sapere cosa vogliamo diventare da qui a vent’anni. Un Paese turistico? Manifatturiero? Digitale? Nessuno lo dice. E senza una visione, nessuno investe davvero». Critico anche sull’utilizzo dei fondi: «Si spende dove è più facile, non dove serve. L’esempio del ponte sullo Stretto è lampante: 24 miliardi per un’opera simbolica, non strategica. Una retorica keynesiana senza ritorno».
Dal punto di vista delle imprese, la situazione è tesa. «Quelle della produzione chiedono al Governo di usare fondi pubblici per compensare l’effetto dei dazi. Ma questo è metadone: non risolve il problema, lo anestetizza. Serve aiutare le aziende a diversificare mercati, non a inseguire dazi compensativi». La logistica, invece, «è terrorizzata. I flussi stanno calando, e il settore non è flessibile: non si può far viaggiare un camion oggi e fermarlo domani. Si lavora su volumi medi. Se questi calano, le piccole imprese — che sono la spina dorsale del nostro sistema — chiudono. E parliamo di migliaia di aziende familiari». Marciani non crede negli interventi emergenziali, come uno “scudo europeo” contro i dazi: «Servono riforme strutturali, non pannicelli caldi. E serve, prima di tutto, armonizzazione fiscale: se l’Olanda permette alle multinazionali di pagare l’IVA solo al momento della vendita, mentre in Italia devi pagarla appena la merce arriva al porto, il confronto è falsato. Così Rotterdam vince sempre».
E aggiunge: «Una nave carica di scarpe arriva a Rotterdam, e Nike paga l’iva solo quando vende. A Gioia Tauro, la stessa merce viene fermata e tassata subito. Come possiamo competere? Prima ancora di parlare di logistica, serve un campo di gioco equo». Oltre all’armonizzazione fiscale, Marciani invoca una vera politica industriale: «Servono investimenti in formazione, in tecnologia, in intelligenza artificiale. Ma anche una politica migratoria che attragga talenti e non solo manodopera a basso valore. Altrimenti, diventiamo la Disneyland d’Europa: un Paese dove si viene per mangiare bene, ma non per fare innovazione». Infine, il rischio più grande: la disgregazione di un sistema produttivo fragile. «Se si chiude un’azienda che esportava il 60% negli Usa, non basta darle un incentivo. Hai perso competenze, occupazione e filiera. I dazi, certo, sono un problema. Ma il vero pericolo è che stiamo perdendo tempo prezioso per prepararci al mondo che sta arrivando».
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