Nel giorno del giuramento del capo dello Stato, il giudizio è stato pressoché unanime: Mattarella è stata la migliore scelta possibile. Ed è proprio così. Il problema, infatti, non è Mattarella. Anzi. Il problema è il “possibile”.
Il Presidente rieletto, infatti, come unanimemente gli è stato riconosciuto, non può che essere apprezzato. Per la chiarezza con la quale aveva sottolineato l’inopportunità della propria rielezione. Per la coerenza con la quale ha affrontato la fase in cui, ancor prima di cominciare a votare, da più parti veniva invitato a ripensarci. Per lo spirito e la sobrietà con i quali ha dovuto far prevalere la disponibilità a ripensarci sulle ragioni di opportunità che lui stesso aveva chiaramente scolpito.

L’opportunità infatti implica valutazioni relative. Una scelta è più o meno opportuna a seconda di quali siano le sue alternative. E qui entra in gioco il possibile. Cos’altro sarebbe stato possibile? Nel contesto politico in cui siamo, probabilmente nulla. Non la vittoria di un candidato sostenuto solo da uno schieramento contro l’altro, perché mancavano i numeri. Non l’elezione di Draghi vittima delle tre diffidenze: quella tra i partiti, quella dei parlamentari “perdenti posto” di fronte allo spettro delle elezioni e la diffidenza verso l’ipotesi di due tecnici tra Palazzo Chigi e Quirinale. E tre diffidenze, come tre indizi, fanno una prova. Ma nemmeno un candidato politico (Casini) o politico-tecnico (Amato) avrebbe consentito di assicurare una maggioranza abbastanza ampia da evitare che, nel segreto dell’urna, si consumasse un ulteriore bagno di sangue grazie allo scorrazzare dei franchi tiratori.

Così la politica, per quanto malridotta e oggi incapace di qualsiasi iniziativa costruttiva, ha sfoderato l’unica abilità che conserva: il fiuto. Di fronte alla crescita di consensi per l’ex/neo Presidente nelle votazioni che, implacabili, squadernavano lo sua impotenza, i partiti hanno scelto ciò che avrebbe loro consentito di non scegliere: fotografare l’esistente. Cercando il consenso dove c’era già, e sperando di rinviare i problemi. Ma il fiuto è una dote dell’istante, la lungimiranza è una dote della durata. E solo il futuro ci dirà se la scelta sarà stata lungimirante per il destino dei partiti. Una cosa è certa. Mentre la rielezione di Mattarella conferma l’equilibrio istituzionale preesistente, non assicura affatto una continuità dell’equilibrio politico. Anzi possiamo sinora dire che nulla resterà come prima. Non è immaginabile, anche su quel versante, uno scenario da “bis”. Nulla di replicabile. Il passato non potrà proiettarsi tale e quale nel futuro. Semplicemente perché non ci saranno più le stesse condizioni politiche e istituzionali. A cominciare dalla contrazione del numero dei parlamentari.

Il nesso cruciale tra condizioni politiche e istituzionali per assicurare il rilancio del paese in una prospettiva in cui il mondo si fa sempre più piccolo, sono state sottolineate, con la ferma sobrietà che lo caratterizza, dal presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento. Chi si aspettava parole di circostanza su questo punto è rimasto deluso. Il Presidente ha invocato chiaramente la necessità di riforme delle istituzioni e dello Stato. Occorre “riannodare il patto costituzionale tra gli italiani e le loro istituzioni libere e democratiche” perché il rischio è che nel vuoto di potere democratico, si insinuino altri poteri e interessi svincolati dalla legittimazione popolare. Il Presidente, anzi, ha toccato tutti i principali problemi della nostra democrazia: la distanza tra rappresentanti e rappresentati, la crisi di legittimazione dei partiti, lo svuotamento dei poteri parlamentari, soprattutto nella compressione dei tempi di decisione e nel capovolgimento del sistema delle fonti del diritto; l’inadeguatezza delle regole parlamentari; la necessità di un “profondo processo riformatore” che deve interessare il versante della giustizia per rilanciarne la “credibilità” e ridurre la “diffidenza” dei cittadini.

Si è definito così un ampio perimetro nel quale spetta alle forze politiche dimostrare le proprie capacità. A proposito di istituzioni, di fronte a chi sembra ignorare il problema, l’unico spunto emerso negli ultimi giorni è quello di chi invoca una riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Si può condividere o meno, ma è l’unico tema oggi in discussione. Ad esso corrisponde una precisa strategia di assetto del sistema politico. Una strategia chiara, che scommette o promette il rilancio della politica attraverso una nuova centralità dei partiti, liberandoli da qualsiasi vincolo pre-elettorale siglato davanti ai cittadini. Questa è la sola proposta in campo, in alternativa allo status quo. Si faranno strada delle iniziative alternative? Visioni riformatrici diverse che individuino le modifiche istituzionali necessarie per realizzarle? Queste non possono essere certamente le rituali difese di un bipolarismo eventualmente tutto da reinventare, né l’evocazione puramente verbale di una modifica della forma di governo, magari in direzione presidenziale.

Il dibattito sulle riforme non può essere fatto solo di bandierine propagandistiche o dell’ennesimo disegno di legge destinato a invecchiare nei polverosi scaffali di qualche commissione parlamentare. La volontà di riforme, se c’è, richiede iniziative politiche chiare e coraggiose. A fronte della determinazione di chi persegue, legittimamente, la strada di un ritorno a una pura democrazia dei partiti, coloro che sono convinti che vadano percorse altre strade debbono farsi avanti con proposte concrete e credibili. Proposte accompagnate da lacrime, sudore e sangue nella battaglia politica. Non esibizioni di libri dei sogni. Buoni solo per segnare un “posizionamento” simbolico attraverso qualche dichiarazione stampa. Altrimenti, resteranno solo lacrime di coccodrillo e il successo, meritato, di chi ha saputo andare fino in fondo, perseguendo il proprio, legittimo, interesse politico.