Sono passate poche ore dallo scampato pericolo, ma la politica sembra già aver dimenticato. Eppure l’enormità di quello che è successo dovrebbe essere evidente. Per la seconda volta consecutiva il Parlamento è dovuto ricorrere alla rielezione del capo dello Stato uscente, non essendo riuscito a trovare alcuna altra soluzione e malgrado l’interessato avesse chiaramente manifestato la propria contrarietà, sia per motivi personali, sia – ma è quel che più conta – per motivi di ordine istituzionale. Il fatto che il presidente Mattarella, dimostrando un grande spirito di servizio, abbia messo da parte le ragioni personali, non significa che tutto vada bene. E anzi attendiamo il suo discorso di insediamento per conoscere quelle che verosimilmente saranno riflessioni molto preoccupate sulla vicenda che lo riguarda.

Di fronte a tutto ciò, ci si sarebbe aspettati che la politica si prendesse qualche giorno di riflessione, sia per valutare come evitare, la prossima volta, che un simile scenario si ripeta, sia per contare i morti e feriti che gli ultimi giorni hanno seminato nel sistema politico: conflitti nelle coalizioni, spaccature dentro ai partiti, recriminazioni e accuse. Contemplare l’impotenza a volte aiuta a trarre qualche insegnamento dall’esperienza. Ma questo non appartiene al costume della nostra classe dirigente, la quale anzi sembra rituffarsi subito, a testa bassa, nella quotidianità politica, indisponibile ad alzare uno sguardo che vada oltre gli interessi dell’indomani mattina. E così nessun dibattito di prospettiva strategica sullo stato delle nostre istituzioni, ma al contrario solo una preoccupazione per l’immediato. E l’immediato, nella strana dimensione temporale della vita pubblica, si chiama: elezioni. E, ovviamente, sistema elettorale con il quale andarci. Inutile entrare negli argomenti, tutti sospetti e interessati, del perché sarebbe necessario cambiare subito la legge elettorale. Perché la legge elettorale interessa per definizione coloro che ne saranno avvantaggiati o penalizzati, cioè i partiti stessi; quelli che la vogliono cambiare. Inutile discuterne quindi? Direi di no.

Innanzitutto perché non bisogna perdere la certezza che nella politica, benché malridotta, ci siano ancora tante personalità che hanno sinceramente a cuore il destino della vita pubblica. In secondo luogo perché invocare la razionalità delle scelte o smascherare le argomentazioni “interessate” può servire a (cercare) di evitare gli esiti più nefasti. E allora diciamo subito chiaramente che il dibattito sulla legge elettorale è una grande ipocrisia. Gli ultimi decenni ci insegnano che le leggi elettorali, qualunque esse siano state, non sono mai bastate, da sole, a risolvere alcun problema. Soprattutto i problemi del paese. Non perché non siano importanti, ma perché sono state sistematicamente aggirate e sabotate. E il fatto di aggirarle o sabotarle non ha prodotto alcuna sanzione, semmai ha offerto vantaggi a chi lo ha fatto. Pensiamo a questa legislatura, formatasi con una legge elettorale che doveva spingere verso l’aggregazione delle forze politiche omogenee. È bastato qualche giorno e in Parlamento si sono formate maggioranze che coinvolgevano partiti che in campagna elettorale se l’erano date di santa ragione.

Per non parlare poi dei “cambiacasacca”, dei trasformisti, che dietro il paravento della libertà di mandato, hanno politicamente tradito i propri elettori, vagando alla ricerca di nuovi lidi in cui accasarsi. Sia chiaro: la libertà di mandato è sacra, ma, essere premiati per aver abbandonato i gruppi di appartenenza, con la libertà non ha nulla a che fare. E anche la promessa di avere leggi elettorali che garantissero la stabilità dei governi si è rivelata un’ipocrisia nel momento in cui nessuna altra riforma è stata fatta per proteggere quella stabilità. Insomma, le leggi elettorali sono importanti, ma solo come corollario di un assetto delle istituzioni in cui vi siano regole che consentano di non tradirne lo spirito. Regole parlamentari e regole costituzionali. Altrimenti sono giustificati i sospetti. E veniamo a noi. Come si fa, nell’attuale, drammatica situazione, a discutere di legge elettorale se la politica non fa quell’esame di coscienza su come vuole che la vita pubblica sia organizzata, su quale idea delle istituzioni ha? E come si fa a discutere di legge elettorale se prima non si fanno quelle riforme che assicurano, a qualsiasi legge elettorale, di funzionare secondo lo spirito che la informa? Che si discuta poi di legge proporzionale rende ancora più evidente le reali intenzioni dei partiti che la sostengono.

La proporzionale serve, da che mondo è mondo, a lasciare ai partiti le mani libere e a renderli ancora di più signori della vita parlamentare. Signori del potere di fare e disfare i governi, di aprire e chiudere le crisi secondo le convenienze del momento. La legge proporzionale è un test unico e inappellabile sulle virtù e sui vizi dei partiti. In assenza di altre norme costituzionali che garantiscano governabilità, la proporzionale mette tutto nelle mani dei partiti. Quei partiti spaccati e litigiosi, che sono dovuti ricorrere – grazie al presidente Mattarella – al “papa straniero” (Draghi) perché incapaci, da soli, di produrre soluzioni; quei partiti che si sono dimostrati incapaci di scegliere un nuovo presidente della Repubblica, finendo per forzare la stessa volontà di quello uscente per evitare di avvitarsi in una crisi senza fi ne. Quegli stessi partiti che già pensano alle regole per le prossime elezioni, perché la loro mente ormai è lì, con buona pace dei grandi problemi del paese.

Ovviamente esiste una narrazione “nobile” per la scelta proporzionale: liberiamo i partiti dalle costrizioni di coalizioni morte, isoliamo quelle che una volta si chiamavano le “estreme”. Lasciamo che i migliori si alleino in Parlamento senza dover cedere alle tentazioni populiste. Se fosse così ci sarebbe da metterci la firma. Ma chi, con onestà intellettuale, può assicurarci che le cose andranno veramente in questo modo? Chi può assicurarci che il vizio secolare dell’instabilità, gli appetiti dei partiti, l’esaltazione dei poteri di veto per incrementare il tornaconto di questa o quella fazione non prevarranno, come sempre sono prevalsi nella storia di questo paese? Siamo sicuri che ricacciare i cittadini ai margini delle scelte che contano (innanzitutto la scelta di chi deve governare) sia, in questa epoca di delegittimazione della democrazia, l’idea migliore?

Certo, abbiamo imparato che nessuna legge elettorale, da sola, riesce a rimettere al centro i cittadini, ma sappiamo anche, dall’epoca di Sturzo e De Gasperi, che la nostra Repubblica, per giunta oramai senza “quei” partiti, non ce la può fare con meccanismi che si limitino a difendere il fortino del palazzo. Speravamo che lo spettacolo dell’elezioni presidenziali potesse essere l’occasione per un ripensamento profondo delle malattie del nostro sistema politico. Ma, realisticamente, sembra essere proprio vero che una politica debole non può compiere scelte decisive.