Il “campo coeso”, seppure vincente, si lacera a due giorni dalla festa d’Abruzzo fra strappi – sul terzo mandato e lo stop ai ballottaggi nei comuni sopra i 15 mila abitanti – e qualche gelosia di troppo, ad esempio per la kermesse sul “fisco amico”. La causa è sempre la stessa: la Lega di Matteo Salvini, quasi terzo incomodo di un sempre più evidente patto a due Meloni-Tajani destinato a rafforzarsi alle Europee. Matteo Salvini, uscito più che ridimensionato da questo doppio turno regionale, continua a battere il tasto della radicalità e del sovranismo. Non può fare altro.

Il centrismo di meloni gli apre uno spazio a destra, seppure estrema, che potrebbe intercettare il vento delle estreme destre europee come dimostra l’ottimo risultato di Chega! in Portogallo e i sondaggi che danno Identità e democrazia (Id), la famiglia europea di Salvini, al terzo posto nell’europarlamento dopo Ppe, Pse e prima dei Conservatori. Battere il ferro della radicalità, dunque. Disturbare la prolungata luna di miele della premier. Così ieri Salvini ha dato mandato ai suoi di presentare, o meglio ripresentare, due emendamenti della discordia. La scena è sempre quella dell’aula di palazzo Madama, il mezzo è il decreto elezioni (che decide tempi e modi del voto di giugno, europee e amministrative), in scadenza a fine marzo e alla sua prima lettura. Ieri pomeriggio il testo era previsto in aula per la votazione finale e, puntuale, è arrivato come primo emendamento quello sul terzo mandato per i presidenti di regione. Detto anche Salva-Zaia (posto che Zaia non deve salvarsi da nessuno, anzi), l’emendamento era già stato presentato tre settimane fa in Commissione dove era stato respinto finendo però per spaccare il Pd che al suo interno la pensa in modo diverso dalla segretaria Schlein e vorrebbe discutere di terzo mandato non solo per i governatori ma anche per i sindaci.

Ieri il senatore della Lega Paolo Tosato lo ha ripresentato. E ha fatto anche il bis aggiungendo un altro elemento divisivo: l’abolizione del ballottaggio nei comuni sopra i 15 mila abitanti se al primo turno uno dei candidati raggiunge il 40%. Se la prima è una modifica con qualche respiro, la seconda suona decisamente provocatoria a tre mesi dal voto (l’8 e il 9 giugno andranno a votare circa quattromila comuni di cui molti con 15 mila abitanti). “Vogliono costringere il governo a mettere la fiducia” si è cominciato a mormorare nei corridoi di palazzo Madama prima dell’inizio delle votazioni cominciate intorno alle 18. Nelle file dell’opposizione e anche in quelle della maggioranza. Ma il governo non può mettere la fiducia sul decreto elezioni, sarebbe un autogol clamoroso. Quasi un abuso di potere. Si è quindi arrivati così al voto. E alla fotografia plastica della spaccatura.

Anche Italia viva ha presentato un emendamento analogo a quello della Lega. “Coraggio colleghi della Lega e del Pd, facciamo scegliere i cittadini – ha motivato la capogruppo Raffaella Paita – se vogliono esser governati da Zaia, De Luca, Emiliano o Bonaccini”. I due testi, praticamente identici sono stati messi in votazione insieme. Sono stati bocciati. A favore hanno votato Lega e Iv, Svp si è astenuta e tutti gli altri FdI, FI, Pd, M5s e Avs, contrari. In serata il governo ha chiesto di ritirare l’emendamento sul ballottaggio che è stato trasformato in un ordine del giorno. “La battaglia non finisce qua” assicurano dalla Lega. In materia di riforma fiscale la Lega sta avendo quello che vuole. Il decreto attuativo che nei fatti manda al macero 600 miliardi di cartelle esattoriali e multe con la rateizzazione fino a cinque anni dopo di che la riscossione viene ceduta all’ente locale che troverò il modo, se necessario di incassare è uno di quegli stralci (non sempre con saldo) che Salvini promette da anni.

Il motivo è noto: si tratta di crediti nei fatti inesigibili per 1.206 miliardi, una cifra mostruosa in capo a 22 milioni di 22,4 milioni di contribuenti morosi ma impossibilitati, si dice, a pagare perché falliti o nulla tenenti. A volte persino deceduti. Siamo ben lontani da quel taglio delle tasse o dalla flat-tax che è nel programma della Lega. È pur sempre qualcosa che va nella solita direzione: premiare il lavoratore autonomo (la rateizzazione esclude i lavoratori dipendenti) e pazienza se è anche uno dei tanti furbetti che, sommati insieme, producono 86 miliardi di evasione fiscale all’anno. Soldi sottratti ai servizi pubblici, alla sanità, alle scuole, a strade ben tenute e giardini pubblici pulite, a tutto quell’insieme di servizi che lo Stato può garantire se i cittadini pagano le tasse. Ieri mattina però, nell’affollato convegno a Montecitorio dedicato alla “Riforma fiscale, attuazione e riforme”, c’erano Giorgia Meloni, il viceministro Maurizio Leo che ha scritto materialmente scritto la riforma, e il ministro Giorgetti, titolare del Mef. Insomma, semplificando un po’, i riflettori e il merito se li sono presi Meloni e Fratelli d’Italia.

La premier non è più quella che, già premier nel maggio 2023, disse che le tasse sono “il pizzo di Stato”. Ha corretto il tiro per cui “l’evasione è come il terrorismo”. Ieri ha scelto una via di mezzo: “Non penso, non dirò mai che le tasse siano una cosa bellissima, sono una cosa bellissima le libere donazioni, non i prelievi imposti per legge”. Rivendica che il suo governo è quello che sta avendo maggiore successo nella lotta all’evasione per mettere a tacere chi, le opposizioni, la accusano di “favorire come sempre furbetti e evasori”. Omettendo, però, che se oggi questi sono i risultati (evasione ridotta di circa tredici miliardi) il merito è del governo Renzi che impose la fatturazione elettronica e l’uso della moneta digitale tra l’ira della destra e delle partite Iva.

Per l’appunto. “A dispetto degli annunci di Meloni e Giorgetti, nei decreti attuativi della riforma fiscale finora di storico c’è oggettivamente molto poco. E di ‘ciccia’ (taglio delle tasse) non c’è assolutamente nulla” spiegava ieri Luigi Marattin (Iv). “Finora sono stati varati/approvati 10 decreti attuativi. 9 di essi non riguardano la riduzione della pressione fiscale, né la riforma strutturale dell’imposizione fiscale ma il procedimento fiscale”.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.