E va bene togliere qualcosa in qua e in là, un contentino sul Superbonus, l’appellativo “esperto” al prof premiato, un po’ di smart working. Ma le marchette no, quelle no. Non con Draghi. Non mentre la gente non sa come pagare la bolletta della luce. Dicono che già martedì sera il premier Draghi quando ha realizzato che nel decreto Aiuti bis era stata infilata la norma che consente ai manager pubblici di percepire stipendi che superano il tetto di 240mila euro lordi l’anno abbia messo da parte il suo tradizionale aplomb e abbia sentenziato: “Non se ne parla. Non passerà mai”. Costi quel che costi. Whatever it takes, per l’appunto. In questo caso significa pubblica gogna sui partiti che pensavano di farla franca – e con loro i loro mandanti – approfittando delle camere sciolte, dell’emergenza energia e di un passaggio di consegne a dir poco concitato e incerto. Significa anche dito puntato sulle alte burocrazie dell’amministrazione dello Stato che certamente avrebbero beneficiato della liberalizzazione degli stipendi e che hanno manovrato, complice la solita manina, nell’ombra e nella frenesia di queste giornate.

Detto fatto. Ieri nel primo pomeriggio il governo, cioè Draghi, dopo aver avuto il via libera del capo dello Stato, ha cassato l’emendamento 4bis (“Trattamento economico delle cariche di vertice delle Forze armate, delle Forze di polizia e delle pubbliche amministrazioni”) presentando un emendamento al testo che è arrivato ieri in Commissione alla Camera dove sarà votato oggi in aula. I partiti, presi con le mani nella marmellata hanno loro stessi cassato l’emendamento dello scandalo. Morale: oggi l’aula della Camera voterà l’emendamento soppressivo del 4 bis e il decreto Aiuti bis. Il testo però, modificato, dovrà tornare al Senato per la terza, inattesa e definitiva lettura. Generali, superpoliziotti e manager di stato dovranno continuare ad accontentarsi di 240 mila euro lorde l’anno. È chiaro che la storia è il paradigma del cinismo di fine legislatura, la conferma di un metodo – il più tradizionale assalto alla diligenza, in questo caso i 17 miliardi che sono il tesoretto del decreto in questione – e di un vizio a quanto pare sopravvissuto nonostante l’orgoglio di aver fatto parte di un governo come minimo un po’ speciale. Draghi si è ribellato a questa “vergogna” (questa l’espressione usata secondo fonti di palazzo Chigi) e ha lanciato la sua sfida. Anche se in uscita, non presta la sua faccia a una simile porcheria amplificata dal fatto che la gente fuori dal palazzo non ha i soldi per pagare le bollette e che il mezzo usato per portare a fondo la porcheria si chiama per l’appunto “decreto Aiuti”.

«Non ho intenzione – si sarebbe sfogato – di mettere la faccia su questa norma mentre la gente fa i conti con l’inflazione». Il presidente del Consiglio ha provato a ricostruire come si sia potuti arrivare a tanto. E ha cercato di mettere in fi la le “tante manine” di questa storia. Qualche manina sta sicuramente a palazzo Chigi e nel governo. È una vergogna che nelle stanze del Dagl (il legislativo) guidato dal professor Carlo Diodato nessuno abbia dato l’allarme. Può darsi che nella fretta nessuno se ne sia accorto? Il problema, anche in questo caso, non sarebbe da meno. È ridicolo che il ministero dell’Economia abbia dato il parere conforme (circa la nuova spesa e la relativa copertura) ricorrendo ad un presunto fondo ministeriale e però incapiente e in seconda battuta al “Fondo spese impreviste”. Possibile che sia stato fatto tutto questo all’insaputa del fidatissimo e attentissimo ministro Franco? Abbiamo già detto del Dagl. Ma poniamo che la cancellazione del tetto agli stipendi sia sfuggita al check del legislativo – a cui però in genere sfugge molto poco – come è possibile che tutto questo sia sfuggito anche all’occhio supervigile del sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli, l’uomo a cui Draghi ha affidato le chiavi del Pnrr?

E infine, che tipo di controlli ha fatto il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà? L’ex 5 Stelle ha già avuto in questi anni alcuni momenti di distrazione. Deluso e forse anche un po’ accerchiato, Draghi ha fatto come al solito Draghi. E ha ribaltato il tavolo. In questa ricerca di manine non poteva mancare quella che ha agito ma “a sua insaputa”. L’emendamento porta la firma dell’onorevole Perosino di Forza Italia. Ha spiegato di aver «firmato un foglio che mi è stato passato per migliorare il trattamento delle forze armate e di polizia e solo di quelle». Dopo di che quel “foglio” è stato firmato da tutti i gruppi parlamentari e le forze militari hanno compreso anche le alte burocrazie. Una volta messe in fila le varie “manine”, Draghi si è sentito anche con il Capo dello Stato per verificare se la cancellazione di quell’emendamento rientrava negli “affari correnti”. Sergio Mattarella avrebbe giudicato “inopportuno” quell’articolo 4 bis. Insomma, il Capo dello Stato non avrebbe firmato la legge. Il Parlamento ha potuto solo prenderne atto.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.