Tutto cambia tranne la conferenza stampa di fine anno del/la presidente del Consiglio. Ormai è un rito delle Feste, come le lenticchie e “Una poltrona per due” la notte di Natale. Quella di quest’anno è stata particolarmente deludente. Di chi è la colpa? La colpa è in primo luogo di un format ormai superato, vecchio, ingessato – lo hanno notato in molti anche tra i protagonisti della conferenza di giovedì scorso come Claudia Fusani – che è purtroppo ridotto a un fluviale non vogliamo dire a un comizio ma a un discorso del/la presidente del Consiglio di tre ore circa, alla Fidel Castro, scandito da domande e salamelecchi vari dei giornalisti. Tutto questo non ha senso. È una specie di spettacolo, anche piuttosto noioso, una roba da “Non si uccidono così anche i cavalli”: nessuna persona normale riesce a seguire una conferenza così lunga e non gestita secondo criteri moderni riguardo alla lunghezza delle domande e soprattutto delle risposte e senza che vi sia alcuna possibilità di replicare e di controbattere alle affermazioni del/la presidente.

Giorgia Meloni poi ha peggiorato le cose – opinione nostra, evidentemente – divagando, allungando il brodo, non rispondendo nel merito, non fornendo particolari notizie o idee su cosa intenda fare nei prossimi mesi (a parte il “piano Mattei” sul quale ormai servirebbe una puntata di Federica Sciarelli). Andò molto meglio con Mario Draghi, per dire. Ma noi ahimè abbiamo gli anni per ricordare le conferenze di Bettino Craxi, di Silvio Berlusconi, di Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi: altri livelli, altri tempi. E che dire delle mitiche conferenze stampa della Rai degli anni Sessanta-Settanta, ma anche dopo, con fior di professionisti pronti a non fare sconti al politico di turno? Ma tutto ciò detto non possiamo però eludere la questione che questa volta è emersa con particolare evidenza e cioè il ruolo dei giornalisti. Senza dare pagelle – da parte nostra sarebbe fuori luogo – a molti nel complesso i colleghi sono apparsi blandi. Le domande toste saranno state quattro-cinque su oltre quaranta. Colleghi giovani, magari anche un po’intimiditi, che arrivano col foglietto con la domandina preparata col caporedattore e fanno quella anche nel caso in cui nella risposta precedente Meloni avesse detto una cosa sbagliata o confusa, da confutare.

C’è stata certamente qualche lodevole eccezione. Ma è mancato insomma proprio il “clima” delle conferenze stampa vere che sono anche delle battaglie tra la politica e il giornalismo che è o dovrebbe essere suo guardiano. C’è da chiedersi se il giornalismo politico non sia entrato in una stagione o isterico-populista o narcotica e acritica. Sembra che manchi una via mezzo tra lo scandalismo mediatico e l’acquiescenza, per non usare il termine più brutale di servilismo. Su questo i giornalisti dovrebbero riflettere. In questo quadro bisogna chiedersi quanto sia stato sensato da parte della Fnsi sbandierare il boicottaggio della conferenza stampa di Meloni per protesta contro la presunta norma-bavaglio di fatto auto-imbavagliandosi, una cosa che nessuno ha capito, tantomeno i colleghi che pur sposando la “causa” del sindacato dei giornalisti alla conferenza c’è andato eccome: si è scritta dunque una delle pagine più penose della storia sindacale effetto di una deriva che già è tanto definire ideologica.

Ma per tornare al punto, è evidente che questo rito bizantino della conferenza di fine anno vada ormai superato con un format più veloce, più aggressivo, più di qualità. Se si vuole anche più televisivo, anche perché viene trasmesso in diretta. Non servono quarantatré domande, ne basta e avanza la metà se si consentono repliche serie da parte di giornalisti, pochi ma più autorevoli: dieci direttori che incalzano il/la presidente pro tempore. E poi vediamo se ci si annoia e se il/la premier riesce a scappare.