È sempre una premier a due facce: quella più istituzionale nell’intervento principale; la comiziante che fa battute e ama gli slogan, ironizza sulla politica estera di Mario Draghi e tenta di ridicolizzare Giuseppe Conte che quando era premier, nonostante fosse già dimissionario da 24 ore, si impegnò a Bruxelles, tramite l’allora ministro Di Maio, circa la ratifica del Mes. Alla fine, quindi, si assiste al solito ring con clamorose cadute di stile per una premier. Ma per la prima volta, almeno le prime tre e mezzo di un totale di cinque delle comunicazioni al Parlamento di Giorgia Meloni in vista del Consiglio europeo, sono state ieri le più istituzionali di sempre. Trenta minuti, poco pathos e molta stanchezza, pochi applausi ma soprattutto rare ricerche di applauso. “La premier ha cambiato ghost writer, è molto più istituzionale” osserva un acuto osservatore come Federico Fornaro (Pd)”.

Trenta minuti dove fa più notizia quello che Meloni ha volutamente evitato di dire e che invece la preoccupa moltissimo. Come quello che è avvenuto nella riunione con i capigruppi convocata alla Camera mezz’ora prima dell’aula proprio per stringere i bulloni di una macchina, la maggioranza, che mostra segni evidenti di insofferenza su dossier chiave come la legge di bilancio. Sul superbonus edilizio, ad esempio: non solo Forza Italia, anche alcuni parlamentari Fratelli d’Italia chiedono proroghe mirate ma Giorgetti ha negato questa ipotesi. Il titolare del Mef ha persino fatto un comunicato per ufficializzare la sua contrarietà. Il capogruppo di Fi Barelli lo ha invitato per un caffè alla buvette (“spero di convincerlo”) ma il ministro sembra irremovibile. Meloni anche. Le truppe parlamentari meno. Il risultato è che gli emendamenti alla legge di bilancio non arrivano ed è chiaro che non ci sarà l’approvazione definita prima della fine dell’anno.

Alla Camera il testo arriverà il 27 dicembre e tra i deputati, anche di maggioranza, c’è molta irritazione per il progressivo svuotamento della rappresentanza. C’è da stringere i bulloni, alla macchina della maggioranza, anche sul Mes. Il Parlamento italiano dovrà ratificare entro la fine dell’anno. Altrimenti Bruxelles s’impunta e fa saltare la trattativa sul Patto di stabilità e quella, nell’immediato ancora più funesta, sulla revisione del bilancio pluriennale europeo. Bruxelles ci ha già preso a schiaffi: quattro miliardi in meno all’immigrazione; spariti anche i dieci miliardi di aiuti alle imprese. Ma Salvini è stato chiaro: nessuna ratifica fino al voto europeo, “cara Giorgia, ci perdi la faccia pure tu”.

Ma il Mes dovrà essere ratificato, ora e non tra mesi. Nella riunione di maggioranza hanno parlato della settimana tra il 27 e il 31 dicembre, “troveremo uno spazio lì”. Quando Giorgia Meloni prende la parola in aula sembra tenere una postura assai diversa da quelle tenute finora: pacata, non provocatoria, legge quasi sempre, poche digressioni e quindi poche battute a braccio, occhi quasi sempre sul foglio senza cercare l’imbeccata dai suoi seduti nei banchi. In realtà la sua mente è attraversata da molti pensieri e problemi. L’intervento è diviso in parti uguali. E sembra quasi generato dall’intelligenza artificiale tanto è scontato. C’è la “lunga e necessaria premessa” sull’ “approccio costruttivo e pragmatico, serio e virtuoso alle politiche economiche per coniugare la tenuta dei conti e la crescita”.

C’è la lunga lista di “successi”: l’avanzo primario “che torna in positivo”, la crescita, “la migliore in tutta Europa”, l’occupazione quasi al 62%, il “tasso migliore degli ultimi vent’anni”, la rimodulazione del Pnrr “lo avevano detto, ci avete irriso, lo abbiamo fatto”. C’è la “lunga e difficile trattativa sul Patto di Stabilità e crescita” dove, sottolinea Meloni, “per la prima volta, grazie alla serietà dimostrata dalla nostra Nazione già oggi, viene riconosciuto e accettato da tutti i partner europei un punto che l’Italia ha posto fin dall’inizio del negoziato è stato riconosciuto e accettato da tutti i partner europei. Secondo l’ultima bozza di accordo, in fatti, la traiettoria di aggiustamento del rapporto deficit/PIL (attualmente prevista allo 0,5% annuo) dovrà tenere conto nel triennio 2025-2027 degli interessi maturati sul debito contratto per gli investimenti effettuati sulla doppia transizione verde, sulla transazione digitale e sulla difesa”.

Eccolo qui il famoso “passo avanti” indicato da palazzo Chigi. Il ministro Giorgetti, seduto accanto a Meloni nei banchi del governo (dove come al solito manca Salvini impegnato in qualche tavolo al Mit). Rientrano nella categoria delle cose scontate anche gli altri capitoli dell’intervento: l’allargamento dell’Europa ai Balcani e cominciando dall’Ucraina, l’appoggio economico e il sostegno militare all’Ucraina “che ha già vinto visto che in quasi due anni Mosca ha avrebbe annesso l’11 per cento del territorio”, i “due popoli e due stati”, Palestina e Israele.

Nel dibattito generale le opposizioni hanno gioco facile nello smontare la narrazione. I 5 Stelle la irridono sull’Ucraina: “Oggi ci dice che Kiev ha vinto, ma ai comici russi che l’hanno contattata ha parlato di stanchezza generale per la guerra in Ucraina. E lo stesso sindaco di Kiev ci dice che così non si può andare avanti”. Lia Quartapelle (Pd) la inchioda sull’allargamento: “Lei deve scegliere tra Orban e Zelensky, non si può essere amici di entrambi”. Non si può dire di voler stare in Europa e portare sul palco della propria kermesse politica (succederà domenica alla festa di Atreju a Roma)

il leader di Vox Santiago Abascal che ha detto che “Sanchez (il premier spagnolo, ndr) finirà appeso per i piedi a testa in giù”. Tanto vale fare come Salvini che i sovranisti, nazionalisti e nemici dell’Europa li ha invitati nella ormai famosa reunion a Firenze il 3 dicembre scorso. Piero De Luca (Pd) ha spiegato la vera storia del Pnrr: “Miliardi di progetti tagliati e che ancora non sappiamo che fine faranno”.

Quando arriva il tempo della replica, arriva anche la Meloni 2, la capo popolo, la leader di una parte che attacca sempre e comunque a testa bassa. Un profilo lontano anni luce dal premier di un paese fondatore della Ue. E così, rispondendo alla deputata Quartapelle (Pd) che aveva ricordato la “forza della leadership di Mario Draghi e di quella foto nel vagone per Kiev con Scholz e Macron”, Meloni ha irriso “chi fa politica estera parlandosi in tre. Io parlo con tutti e 27, Orban compreso perché solo così credo si possano raggiungere i risultati”. Una brutta caduta di stile.

Poi è toccato a Giuseppe Conte. A proposito del Mes. “Perché qui non si capisce – ha detto Meloni – chi ci abbia messo in questa imbarazzante situazione per cui noi dobbiamo ratificare il Mes. Non si capisce chi ha preso questo impegno”. La costruzione retorica è come sempre ben fatta. Quasi credibile. “È stato Giuseppe Conte, cari colleghi e colleghe, che nel 2019, un giorno dopo le dimissioni da premier, senza dare alcuna comunicazione e col favore delle tenebre, incaricò l’allora ministro Di Maio ad impegnarsi a Bruxelles che l’Italia avrebbe ratificato”. Fischi, urla, grida. Meloni lascia l’aula. Non ci sarà quando Conte replica. Per dire qualcosa di scontato: l’Italia è tenuta a ratificare il Mes in quanto paese membro della Ue.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.