Il dado è tratto. Nonostante Salvini e gli inviti alla cautela. Il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu, indicato direttamente da Meloni, lancia oggi la campagna alla conquista della Sardegna. È tutto pronto, il materiale grafico, il claim della campagna, i luoghi, oggi Quartu e domani Olbia. Anche le alleanze a giudicare almeno da un comunicato ufficiale che parla di Truzzu come “candidato presidente della coalizione di centrodestra, civica, sardista e autonomista”. Ci deve essere sfuggito qualcosa. Delle due l’una: o i vertici a tre Meloni-Tajani-Salvini di giovedì, nonostante le smentite, hanno in realtà deciso per Truzzu mollando Solinas al suo destino; oppure Giorgia Meloni ha deciso, con Tajani, Salvini è costretto al passo indietro e deve farlo anche in silenzio. In realtà ci sarebbe una terza ipotesi: il centrodestra si spacca in Sardegna ma sarebbe veramente clamoroso. Salvini perderebbe due volte: il candidato e la dovuta contropartita che “di sicuro – dicono da Fratelli d’Italia – non sarà il via libera al ddl sul terzo mandato per i governatori”.

FdI vuole scardinare una volta per tutte il regno di De Luca ed Emiliano. Vuole una regione del nord e vuole il Veneto. Anche di questo Salvini dovrà farsi una ragione. Scenario non rassicurante per il futuro della coalizione di maggioranza anche perché siamo solo all’inizio di un anno elettorale che vedrà al voto cinque regioni da qui ad ottobre, quasi quattro mila comuni e le Europee (giugno).
Se a destra stanno così, nel centrosinistra non stanno meglio visto che proprio ieri, dopo lungo temporeggiare nella speranza di una reunion, Alessandra Todde la candidata Pd e 5 Stelle ha lanciato il suo guanto di sfida: “Vincerò ugualmente, con o senza Renato Soru”. L’ex governatore, tra i fondatori del Pd, non ci sta a farsi indicare il candidato da Roma e da Giuseppe Conte, per giunta, Così, con il dovuto preavviso, a fine novembre, ha salutato il Pd e ha iniziato la sua corsa. La proposta di Soru, che si è messo alla guida di un cartello Progressista, è che rinuncino entrambi, lui e Todde, e lascino lo spazio, visto che non sono state fatte primarie, a Graziano Milia, sindaco di Quartu, e al suo Movimento “Rinascita sarda”.

Parliamo di Sardegna perché è la prima ad andare al voto (25 febbraio) ed entro lunedì devono essere presentati i simboli. Dunque qui il tempo è quasi scaduto.
Ma la situazione si ripete in chiave amministrative e in chiave elezioni Europee. Due fronti che risentono l’uno dell’altro molto più di quanto si possa immaginare perché alla fine questa complessa tornata elettorale è vissuta come un gigantesco test per misurare il consenso, le singole leadership e i rapporti di forza a destra e a sinistra. Un grosso errore, soprattutto per le Europee dove invece sarà in palio il destino dell’Unione nel nuovo disordine mondiale.
Sulle Europee si registra nelle ultime ore una tentazione di fuga dalle candidature: da che i singoli leader dovevano essere capolista nelle cinque circoscrizioni nazionali per fare da traino alle rispettive liste, in pochi giorni uno dopo l’altro si stanno tutti chiamando fuori. Lo ha fatto per primo Salvini (“ho troppo da fare come ministro, sarebbe una candidatura finta perchè nessuno di noi lascerebbe il governo per andare a Bruxelles e poi la Lega ha molti uomini e donne che possono candidarsi”), lo ha seguito Tajani con motivazioni più o meno simili. Lo ha dichiarato ufficialmente giovedì Giuseppe Conte (“sarebbe un imbroglio”) che non ci ha mai neppure pensato. Se per questi leader può valere il criterio “meglio non contarsi per evitare figuracce”, vogliono invece farlo le due leader donna, Giorgia Meloni ed Elly Schlein.

Fino a pochi giorni fa sembrava solo una questione formale, mancava solo l’ufficializzazione. Il dibattito era già sul dello tv, dove farlo, quanti, moderato da chi. Le cose stanno forse cambiando.
La base del partito spinge Meloni a correre “per rompere la soglia del 30% e trainare il partito anche in Europa in modo che Fratelli d’Italia possa dare le carte nella nuova Europa”. Ci sono però molte controindicazioni. Il 30% sarebbe, ad esempio, quei 3-4 punti percentuali in meno rispetto a quelli ottenuti da Salvini nel 2019 per non parlare del 41% del Pd di Renzi nel 2014. Magra consolazione con effetti collaterali non troppo vantaggiosi. Che stabilità potrà avere, dopo le Europee, una coalizione cosi squilibrata dove un partito è tre volte più forte degli altri due? A meno che, ma qui si va nel futuro che verrà, Meloni non sia stufa di fare compromessi e non stia pensando di tagliare il cordone con il passato, e anche con certi personaggi, per lanciare il nuovo partito di una destra moderna ed europea. Diversamente, non candidarsi, vorrebbe dire non stressare la sua maggioranza, congelare tensioni e rivendicazioni e concentrarsi sulla presidenza del G7 e sui tanti dossier interni e di politica estera che sono sul tavolo in questo 2024.

Elly Schlein è tuttora convinta di correre per misurarsi e smentire i malumori di un Pd ten-ten, senza leadership e senza identità. La sua asticella è al 20 per cento. L’obiettivo è staccare 4-5 lunghezze (meno sarebbero troppo poche) i 5 Stelle e Giuseppe Conte. Da qui, poi, si ricomincia per la costruzione del campo largo. Le parole di Romano Prodi giovedì sera sono state però un bagno di realtà: “Una finta candidatura svilisce la democrazia, sono cose che fanno a destra non in un partito democratico e progressista”. Candidarsi, per la segretaria del Pd, sembra una via obbligata per uscire dallo stallo della sua leadership. Con molte insidie: se dovesse andare male dovrebbe lasciare. Senza indugio. Se non partecipa, rischia di logorarsi comunque. Intanto scalda le gambe, a bordo campo, Paolo Gentiloni che non si candiderà ma ha avvertito: “Non vado certo in pensione”.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.