È travestita da sensibilità giuridica oltraggiata l’indignazione per la notizia che Friedrich Merz, probabile nuovo Cancelliere tedesco, inviterà in Germania il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu. Un mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale, infatti, si porrebbe a impedimento del libero ingresso e dell’impunita circolazione del supposto criminale di guerra israeliano in terra tedesca, e quell’invito assumerebbe dunque il significato di un’intollerabile insubordinazione al dettato cautelare della giustizia dell’Aja.

Lo scandalo

Ma capisce chiunque che non erano quelle preoccupazioni di rango legalitario a suscitare lo scandalo dilagato ieri, appunto all’uscita della notizia secondo cui il leader della Cdu, durante una conversazione telefonica con Netanyahu, avrebbe manifestato l’intenzione di invitarlo in Germania a dispetto di quell’ordine giudiziario. Ciò che in realtà indigna – ben a prescindere dalle presunte o effettive controindicazioni giuridiche – è il fatto stesso che un leader europeo, verosimilmente in vista di assumere la guida esecutiva del più importante paese dell’Unione, comprometta le equanimità terrene dell’Occidente democratico e pacifista facendole calpestare dal guerrafondaio di Gerusalemme.

L’impresentabile

Per il grosso dell’opinione pubblica continentale, modellata in avversione e in risentimento da una stampa che senza sosta descrive Israele come una specie di Terzo Reich con la Stella di David al posto della svastica, il primo ministro di Israele sarebbe stato un impresentabile in ogni caso, cioè anche se non si fosse chiamato Benjamin Netanyahu e anche se quell’ordine di arresto non fosse intervenuto. Il verbo democratico è che non ci si può compromettere con chi guida il governo di Israele, a prescindere da come si chiami e a prescindere da che cosa faccia, giusto come bisogna prendere le distanze dalle università israeliane o boicottare il commercio dei prodotti israeliani. È evidente quanto sia carico di significato politico e simbolico il fatto che a mettersi contro quell’andazzo di ostracismo anti-israeliano sia la Germania. Quindici mesi fa, mentre nell’Europa che fu della Shoah ricominciò la fioritura delle stelle gialle e prese il via la moltiplicazione dei fregi antisemiti sulle case degli ebrei, fu un tedesco – il vice cancelliere Robert Habeck – a pronunciare le parole che mancarono ai suoi omologhi di quell’Europa dalla coscienza raggomitolata. Disse che, ottant’anni dopo, la Germania non poteva assistere a ciò cui stava assistendo; e riaffermava il principio secondo cui il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele coincide con il diritto all’esistenza e alla sicurezza della Germania. Qualche ambiguità tedesca durante il corso della guerra di Gaza avrebbe intaccato la purezza di quelle rivendicazioni di solidarietà e comunanza di interessi, ma resta che la forza e l’intransigenza di quelle parole furono una stecca nel coro muto di un’Europa affaticata a distrarsi o, peggio, impegnata da Madrid a Dublino e a Oslo nel sostegno dei progetti di liberazione della Palestina dal fiume al mare.

Il piano

Chi facesse finta di abbarbicarsi alla superiorità incensurabile della giustizia internazionale per condannare quell’annuncio di Friedrich Merz – il quale avrebbe rivolto l’invito a Netanyahu “a dispetto della scandalosa decisione della Corte Penale Internazionale di etichettare il primo ministro come criminale di guerra” – potrebbe utilmente considerare su che cosa, innanzitutto, si basava la richiesta di arresto di Bibi e del ministro della Difesa Yoav Gallant. I due avrebbero pianificato, e poi attuato, una campagna di sterminio per fame della popolazione di Gaza, con una carestia che sarebbe stata dilagante in alcune parti di Gaza già nel maggio del 2024 e dunque imminente, con effetti catastrofici, nel resto della Striscia. Un provvidenziale ricostituente deve aver impedito che quelle multiple carestie avessero un qualsiasi effetto, e per fortuna almeno una parte della popolazione palestinese sarebbe stata abbastanza in forze, nove mesi dopo, per fare festa e cantare sulle bare di due bambini ebrei rapiti il 7 ottobre e strangolati nei tunnel di Gaza. Non è il culto della “rule of law”, non è l’ossequio allo Stato di diritto, non è l’inchino alla supremazia della legge a mobilitare le cattive coscienze che rimproverano al leader tedesco di compromettersi con il “criminale” israeliano. È, invece, il disappunto nel vedere che la Germania è meno disponibile di altri ad accreditare la menzogna – blasfema e antisemita – sottesa alle pretese di incriminazione dello Stato ebraico: e cioè che esso abbia perpetrato ai danni dei palestinesi le pratiche genocidiarie proprie di quelli che sterminarono gli ebrei.