Smontate la targa alle spalle dei giudici nelle aule di tribunale, svitate i bulloni e togliete da lì “la legge è uguale per tutti”. Al suo posto scriveteci: decidono i social. Mettono la croce su un uomo prima ancora che sia stato solo identificato dalle forze dell’ordine. C’è la gogna, non ci serve la giustizia. Dimenticate anche: è innocente fino a prova contraria. Dimenticate i tre gradi di giudizio, la difesa, il diritto alla privacy. Dimenticate tutto. Pensate stia scherzando? Purtroppo no.

Ieri su Facebook, che potrebbe tranquillamente cambiare il suo nome in Palazzo di Giustizia, è apparsa la foto di un ragazzo (che non troverete sulle pagine di questo giornale per lo stesso principio secondo il quale troverete, invece, questo articolo) con una didascalia: “Per favore qualcuno conosce questo ragazzo? Dice di essere di Capodimonte, lo cercano perché devono parlargli. Grazie”. Ma chi lo cerca? Chi deve parlargli? Ma si può mettere la foto di un ragazzo dandolo in pasto al poco equilibrato mondo dei social? Perché lo hanno fatto? L’accusa è gravissima (“è un pedofilo”), certo se venisse confermata sarebbe un fatto grave ma comunque non andrebbe sbattuta la foto “del mostro in prima pagina” anzi peggio, su Facebook.

Nei commenti degli utenti, che evidentemente si sentono oggi magistrati, ieri allenatori e un anno fa virologi, si legge: “Dà fastidio alle ragazzine fuori scuola”. L’accusa è quindi di molestia o comunque stalking, non saprei perché non ci sono le carte, né le indagini, né le denunce, né un fermo della polizia, né un interrogatorio. Ovviamente non c’è neanche una sentenza. Non c’è nulla: c’è il sentito dire, che per carità potrebbe essere vero, ma per ora è sentito dire. Qualcuno commenta: “Se fosse vero, andrebbe segnalato alle autorità competenti con prove certe e non per sentito dire, brava gente”. Eh già. È così che andrebbe fatto. Perché è chiaro che se c’è qualcuno che importuna le ragazzine, va identificato e fermato. È anche banale scriverlo, ma meglio specificare che non siamo contro la denuncia ma contro la gogna. Una mamma dice di aver segnalato il ragazzo alla scuola e alla polizia. Se è vero, ha fatto benissimo. Poi aggiunge: ho diffuso la sua foto anche su altri gruppi.

Perché è lì che si decide della vita di un uomo, mica in altre sedi. È sui social che si stabilisce se uno è o non è una brava persona, se ha o non ha problemi mentali, se ha commesso o non ha commesso un reato. Qualcun altro scrive: “È un ragazzo con disturbi mentali, calma, prima di giudicare”. È questo l’emblema della nostra società: giudicare sui social, giudicare senza conoscere i fatti, mettere la croce su un uomo perché di lui si dice che è un malfattore. In realtà il problema è proprio giudicare. Certo, le aule di tribunale lasciano molto a desiderare e la giustizia perde credibilità di giorno in giorno, ma questo ci dà il diritto di mettere la foto di un uomo su un social con milioni di iscritti, di ficcare il naso nella vita di una persona che non conosciamo, di accusarlo e di stabilire già che è colpevole? No, ma probabilmente sì. Allo stesso mostro al quale ora si dedicheranno pagine e pagine, frugando nella sua intimità con la delicatezza di una ruspa, non verrà riservato lo stesso trattamento quando pronunceranno la frase: assolto. Nessuno sta dicendo che l’uomo nella foto sia innocente, ma che senza una sentenza, sì, è innocente. È innocente fino a prova a contraria. Sì: fino a prova contraria e non fino a prova di social.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.