Questa è la rubrica della Posta della Prevenzione, nata per dare una voce a chiunque voglia condividere esperienze di discriminazione, violenza e rinascita. Vogliamo leggere la vostra storia, qualunque essa sia, dandole lo spazio che merita di occupare. Scriveteci a: postaprevenzione@gmail.com

Sono Valentina,
Inizio, per la prima volta, a sentirmi in colpa. È la prima volta, che sento ingiusto quello che per mesi ho reputato essere l’unica opzione: rimanere in silenzio. Questo silenzio ora, il non aver denunciato, per non creare problemi a nessuno, per non sentirmi di peso e additata come causa di scompiglio nelle dinamiche familiari e relazionali, mi sembra solo ora così ingiusto. A maggio, su un tram affollato, in piedi e stretta tra tutte persone le borse e gli zaini, con le cuffiette nelle orecchie, ho sentito la persona dietro di me che ripetutamente di toccava il fondoschiena. In un primo momento, mi sono sentita in imbarazzo per essere così malevola e così prevenuta da poter pensare che la persona dietro di me stia premendo la mano a più riprese facendolo volontariamente, è assurdo.

Violenza sul tram: quell’uomo non toccava solo me ma anche se stesso

Cosi mi giro, con il desiderio di scoprire che ho ragione, che la persona dietro di me nemmeno si accorge, oppure è talmente pressata dalla folla di persone da non poter fare altro che esercitare quei movimenti dietro di me. Quando mi volto, come a voler avvertire che quella mano certamente inavvertita, la sentivo, vedo l’uomo che con il suo corpo pressato alla mia schiena non sta toccando solo me ma anche se stesso.
Rimango impietrita, e come soffocata da un nodo in gola, che non riesco a sciogliere, che mi impedisce di urlare, di dire qualcosa anche una sola parola. So cosa bisogna fare in queste situazioni, l’ho letto, appreso sulla pelle di tutti gli episodi di violenza di cui ho sempre sentito parlare, ma lì, immobilizzata, scopro come nessuno mi ha avvertito di come non si sceglie di essere vittima di una molestia. La narrazione che conoscevo mi aveva, implicitamente fatto credere che la violenza si fa in due, che la vittima, per quanto nella parte di chi subisce, ha sempre un ruolo.

Tutte le storie che avevo letto, che leggiamo, raccontano di relazioni tossiche, di situazioni di violenza ripetuta, di serate alcoliche, di droghe somministrate, di periferie, di ambienti poco raccomandabili, di una gonna che nella zona sbagliata della città mostra le gambe. Tutti questi elementi, io, li avevo ben schedati nella mia testa come: cose che possono portare a episodi di violenza ergo, niente gonna la sera: problema risolto. Mi sono messa con le braccia a farmi largo nel corridoio del bus tra le persone per arrivare alla porta di uscita e scendere alla fermata successiva, non la mia, senza dire una parola. Mentre mi incamminavo confusamente in una strada che non avevo mai percorso a piedi, mi sono poi intravista riflessa in una vetrina, e mi sono sentita disgustata dal mio stesso corpo, quelle forme che in quei jeans avevano fatto si che quell’uomo avesse avuto l’idea di masturbarsi dietro di me. L’unica a cui ho raccontato del fatto, la mia migliore amica, mi ha detto al telefono: “Gli uomini fanno schifo.” Ma allora, perché mi sentivo io quella a fare schifo invece?

Ho cominciato a leggere i fatti di cronaca della mia città, per rintracciare altri episodi simili, per riconoscerne magari la dinamica e capire che qualcun’altra aveva denunciato l’accaduto e lo stesso assalitore, così da potermi mettere il cuore in pace e sentire al sicuro sapendo che non mi sarebbe più capitato di imbattermi in quella persona.
Ma, ho solo scoperto altre centinaia e centinaia di storie, tutte con dinamiche e volti diversi, venute a galla dopo aver denunciato ed evitato ad altre donne di essere vittime degli stessi atti e uomini. Mentre io, mi sono ritrovata a cercare sempre posto in cui sedermi sul bus e, a guardare osservare tutte le persone che ad ogni fermata salgono, con l’ansia di rivedere tra loro quell’uomo.

Solo ora mi sento in colpa di non aver denunciato. Ho paura sia passato troppo tempo, ho paura che mi venga chiesto perché sono rimasta in silenzio senza urlare, perché non ho detto niente. Quello che so è che i numeri di denunce di violenza sono impressionanti, solo nella mia città sono tre al giorno, e mi chiedo quante come me abbiano deciso di limitarsi a leggerli. Forse, se il sommerso venisse a galla, capiremmo davvero che non basta decidere di non indossare una gonna, che non basta che una donna viva calcolando preventivamente la violenza che potrebbe subire, per evitarla. Vorrei aver urlato, vorrei che tutte potessimo dare l’un l’altra un po’ della nostra voce.

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