Il tempo per cambiare rotta
Molinari contestato alla Federico II, l’ultimo smacco degli intolleranti
Non serviva che a Maurizio Molinari fosse impedito di parlare all’Università Federico II di Napoli per capire che la situazione sta sfuggendo di mano. È infatti, purtroppo, l’ennesima riprova che l’odio anti-ebraico e anti-israeliano non dilaga soltanto nei festeggiamenti mediorientali in cui si celebrano gli eroi del 7 ottobre, ma anche nelle strade e nelle piazze dell’Europa che fu della Shoah.
Il che dovrebbe convocare tutti – ma la sinistra e il Partito Democratico in particolare – a una necessità di riflessione che continua a essere accantonata. Assistere, come si fa da parte di molti anche a sinistra, alla ormai drammatica e trionfante criminalizzazione del “sionismo”, e cioè al rinnegamento delle ragioni fondative di Israele, trasfigurate nel movimento che completa e perfeziona la plurisecolare cospirazione ebraica, significa puramente e semplicemente lasciar correre e ingrossare la bugia che dalla compilazione dei Protocolli alla propaganda goebbelsiana e poi a quella sovietica ha scritto la sceneggiatura dell’inesausto romanzo antisemita. Un racconto le cui concrete capacità offensive non sono revocate dalle formali proclamazioni di ripudio che risuonano nelle celebrazioni della Memoria e nell’istituzione di inerti commissioni parlamentari contro l’odio, le une e le altre soppiantate in forza ed effettività dalla lunga sequela di aggressioni e insulti antisemiti che, proprio in concomitanza di quelle ricorrenze, è osservata impassibilmente come se si trattasse di questa o quella fungibile manifestazione di adolescenziale inurbanità.
Il prezzo da pagare
Fare i conti con un fenomeno che dovrebbe vedere chiunque e allarmare chiunque, vale a dire il clima da Kristallnacht che raccomanda agli ebrei di non farsi riconoscere, di nascondere i simboli della propria identità, di non sostare davanti a luoghi “pericolosi”, cioè le scuole e i luoghi di culto ebraici, significa fare ciò che finora, non solo a sinistra ma soprattutto a sinistra, non è stato fatto: e cioè prendere le distanze dalle “proprie” insensibilità e dalla “propria” incapacità di farla finita con il mostro in seno. Il prezzo che si paga nel non dire nulla quando una sconsiderata requisitoria di marca Onu spiega che il 7 ottobre “non viene dal nulla” è più alto, molto più alto rispetto al guadagno cui aspira un’improbabile equidistanza per la pace: e si paga nella devastazione delle pietre d’inciampo, nelle stelle disegnate sulle case degli ebrei e nello slogan “Fuori i sionisti da Roma” gridato a due passi dal Portico d’Ottavia, tutte piacevolezze che vengono direttamente dai lombi di quella contraffazione narrativa lasciata prosperare nell’indifferenza comune.
Il tempo per cambiare rotta
Rifiutarsi di pagare quel prezzo non significherebbe rinunciare nemmeno a un pizzico di comprensione e solidarietà per la causa palestinese, sempre che questa riguardi il diritto di quel popolo di vivere in libertà in un sistema di decenti garanzie democratiche. Significherebbe, al contrario, non cedere alla pretesa che quella causa si confonda con gli intendimenti palesi e ben diversi che rinvigoriscono le ambizioni di molti non solo laggiù, ma anche qui, e cioè che il diritto alla vita di Israele e degli ebrei nel mondo sia dopotutto recessivo, dimidiato, precario, perché si fonda su una colpa originaria e su un’usurpazione irrimediabile. Il tempo per cambiare rotta ci sarebbe. Ma il presupposto è che si riconosca che è sbagliata quella finora prescelta o, peggio, sulla quale ci si è lasciati portare.
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