«Diamoci “del tu”. Ti va?». Chiede Fausto Bertinotti al telefono, mentre si trova «in campagna, a guardare la pioggia». Abbatte i formalismi l’ex Presidente della Camera, firma del Riformista. Anche quando alla domanda «possiamo parlare della signora Wertmuller?», Bertinotti risponde: «Se fosse viva e ci avesse sentito chiamarla “signora”, Lina di certo ci avrebbe riso su». Verissimo. Le etichette non facevano per lei. Può dimostrarlo chiunque l’abbia incontrata, intervistata, conosciuta più o meno bene. Lui la conosceva bene: «Eravamo amici – spiega Bertinotti –. Insieme a mia moglie Lella, sono stato spesso a casa sua. Non ci vedevamo da un po’, sapevo fosse molto provata. Ma – continua – facciamola ridere ancora, anche adesso che non c’è più. Continuiamo a chiamarla “signora Wertmuller”».

Parafrasiamo il titolo di un recente e fortunato film, “Qui rido io” di Mario Martone. Qui ride (ancora) Lina.
La risata di Lina contagiava anche la sua opera. Pensiamo, ad esempio, a Pasqualino Settebellezze. Racconta una storia drammatica (l’avventuroso peregrinare di un giovane proletario della Napoli fascista, che finisce in un lager tedesco ndr.). Ma se scavi un po’, avverti l’eco del ridere. Una reazione non consolatoria, né di fuga. È invece un distacco ironico dalla realtà.

A proposito di titoli. I suoi, interminabili, sono leggendari.
Titoli che non finiscono mai. Proprio come il suo nome (all’anagrafe: Arcangela Felice Assunta Wertmuller von Elgg Spanol von Braueich ndr.). Vale lo stesso per i personaggi dei suoi film. Rappresentano una natura doppia, o tripla. E così, riescono a mantenersi sempre a debita distanza dalle persone vere.

Vale lo stesso per gli attori, spesso grandissimi, che hanno interpretato i suoi film?
Certo. Giancarlo Giannini ad esempio, era fuori dai canoni tradizionali. Così diverso da Marcello Mastroianni, un interprete del tutto risolto. Forse è anche per questo che Lina, pur essendo ottimi amici, diresse poco Mastroianni (una sola volta, nel 1978, in coppia con la Loren per Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici, ndr.). Irrisolta, allo stesso modo di Giannini, era invece la gigantesca Mariangela Melato.

Giannini e Melato sono i protagonisti di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”. Una commedia sulla lotta di classe, datata 1974.
In quel decennio, gli anni Settanta così segnati dalla divisione della società in classi, Lina guardava ai proletari e ai borghesi allo stesso modo. Con disincanto e critica.

Questo tipo di conflitto, oggi pare meno attuale. Lo sono anche i film di Wertmuller?
Il nostro è un mondo rovesciato, in cui anche la lotta di classe è alla rovescia. La combatte chi detiene il potere. In un’epoca che la sociologia definisce fluida, tanto cinema di Lina Wertmuller non avrebbe cittadinanza. E farebbe fatica a trovare una produzione.

L’essere donna è stata un’altra cifra importante, nella sua carriera cinematografica.
Una regista molto di confine. Non saprei dire se fosse femminista. Certo, resta famosa la sua battuta sul nuovo nome da dare all’Oscar. «Bisogna cambiare il nome a questa statuetta. Chiamiamola con uno di donna: Anna».

Parole pronunciate a Los Angeles, quando nel 2020 le viene assegnato l’Oscar onorario. Facendole visita a casa, ti è mai capitato di vedere il premio esposto?
Non ricordo di averlo visto. Magari l’aveva nascosto. Era solita spostare il campo di osservazione. Nel suo cinema, così come nel privato. Anche i suoi occhiali bianchi fungevano da schermo, secondo me. In questo modo, l’attenzione non cadeva su di lei ma su ciò che indossava.

Per farla meglio conoscere alle nuove generazioni, un titolo che – prima di altri – suggeriresti agli spettatori più giovani?
Dico Pasqualino Settebellezze. Non secondo una mia personale preferenza, ma perché ormai questo film è un classico.

Nel 1977, quando ebbe la candidatura come migliore regista per Pasqualino, fu Rocky a trionfare agli Oscar…
Non ricordavo. Questo un po’ fa ridere me…