Su Napoli più che riflettere bisogna agire. Questo è il momento giusto, vista l’imminente scadenza del mandato del sindaco Luigi de Magistris che smuove le attenzioni della partecipazione civile e intellettuale. Forse, anzi, è l’ultima chiamata possibile. Condivido perciò la proposta dell’ex parlamentare Giuseppe Ossorio secondo il quale, per immaginare cose nuove, c’è bisogno di gente nuova e magari di una consulta di giovani selezionati più per competenze che per appartenenze. C’è da dire che Napoli ha perso l’occasione, sollecitata più volte e da più parti, di dotarsi di uno strumento istituzionale di consultazione giovanile, come era garantito dalla legge regionale sulle politiche giovanili.

L’amministrazione ha rinunciato all’istituzione di un Forum o di una Consulta giovanile, preferendo il rapporto “one to one” con la viva realtà sociale del territorio, ma è da segnalare quanto invece di buono si sta realizzando nell’ambito della Città metropolitana, dove è in corso l’attivazione del Forum provinciale dei giovani.  In città, nonostante gli sforzi abbiano portato a risultati positivi, questi ultimi non sono paragonabili a quanto avremmo potuto produrre con un’organicità dell’azione, col confronto multilivello. Già nel 2016 era nato l’Osservatorio dei giovani professionisti e imprenditori della Città metropolitana che, al suo interno, raccoglie le sigle associative professionali nelle loro declinazioni giovanili. Gli strumenti di consultazione, però, funzionano solo quando trovano sensibilità politiche disposte a consultarli, altrimenti restano orpelli privi di senso.

Se poi vogliamo che questi strumenti siano partecipati dai giovani napoletani, allora dobbiamo prima interrogarci su due ordini di cose: come trattenerli senza che si sentano obbligati ad andare via? Come formarli affinchè possano dare un contributo di valore?  I dati Istat dipingono una situazione diversa, dove la Campania è la Regione che perde più abitanti per trasferimenti, mentre Eurostat ci ricorda che siamo al secondo posto in Europa per numero di neet, cioè giovani che non studiano e non lavorano. Qui è le eccellenze non mancano, ma non sempre riescono a trovare nelle istituzioni pubbliche degli interlocutori di supporto. La fuga da contesti soffocanti sta perciò provocando una preoccupante desertificazione di intelligenze.  Napoli è una città complessa, resa ancora più complessa da una serie di scelte amministrative che hanno dimostrato il loro fallimento negli anni. Un paradiso abitato da diavoli, scriveva Croce, da innamorato qual era della città.
Il punto è che, persino l’angelo più vicino a Dio, può diventare un diavolo, se si sviluppa in un ambiente che lo favorisce. Non per giustificare, ma per provare a comprendere, e da qui ripartire per migliorare.

Parliamo di una delle aree urbanizzate più grandi d’Europa e la più grande del Mediterraneo, con l’opportunità mancata negli anni Sessanta di costruire una realtà policentrica. Queste scelte hanno portato a ingolfare il centro, sovrapponendo tutti i servizi in un solo spazio, costruendo uno stacco netto di opportunità con la periferia. All’interno del perimetro urbano vivono un milione di abitanti e, se lo sguardo si allarga all’area metropolitana, troviamo tre milioni di abitanti, con 2.671 cittadini stipati per chilometro quadrato (a Napoli sono più di 8mila).  Nonostante l’approvazione nel 2007 del Piano territoriale di coordinamento della Provincia di Napoli, col quale si voleva riequilibrare la presenza della popolazione, dei servizi e delle economie, e l’istituzione nel 2015 della Città metropolitana, l’obiettivo appare ancora lontanissimo.

La Campania – e Svimez lo grida dagli anni Ottanta – ha un urgente bisogno di infrastrutturazione che la renda terra fertile per gli investimenti, qui dove le strutture fisiche della mobilità sono inadeguate, la burocrazia è asfissiante e neanche il processo di digitalizzazione può definirsi sufficiente. Durante questo decennio di crisi gli investimenti nel Meridione si sono ridotti per più del doppio rispetto al Nord, con una ricaduta negativa sull’occupazione e sui dati di cui sopra. I driver sui quali costruire la città del futuro sono quindi quelli della rigenerazione, più che della semplice riqualificazione urbanistica, perché comprendono valutazioni sociali e culturali che non possono essere escluse. Diversificare le industrie, centrandole sui criteri di efficienza e di riduzione dell’inquinamento, è perciò l’unico modo per costruire lavoro, e al contempo offrire a quei giovani di cui parliamo l’opportunità di rimanere per poi dedicarsi alla cosa pubblica.