Con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio è tornato alla ribalta il tema degli obblighi di tutela penale che ha conosciuto una stagione feconda, ancorché infruttuosa negli effetti, una ventina di anni fa con la riforma delle false comunicazioni sociali del 2002, sospettata, tra l’altro, di essere inadeguata “per difetto” agli standard europei di tutela della trasparenza societaria. La questione risorge ora sulle ceneri di una scelta che ha diviso il mondo del diritto: vi è chi l’ha apprezzata, considerata la comunemente ritenuta indeterminatezza della fattispecie (pressoché eliminata, però, dall’ultima riforma) e chi l’ha contestata ritenendo il vecchio art. 323 c.p. un necessario presidio per il cittadino esposto all’abuso di potere.

Profili di illegittimità

Si prescinda da quest’ultima vicenda: quel che più preme rilevare è il malvezzo della giurisprudenza di ravvisare profili di illegittimità quando non apprezza il merito politico-criminale di scelte legittime del legislatore. Ancora una volta si cerca l’assist nella pretesa esistenza di una tutela penale “imposta” da vincoli sovraordinati. Sia chiaro: l’ordinamento ben conosce obblighi di questo tipo. La Costituzione – e non solo la nostra – non manca di esprimere valutazioni anticipate di meritevolezza e bisogno di pena con un’incidenza limitativa della libertà di scelta politica del legislatore. Si tratta di ipotesi, per il vero assai circoscritte, che hanno visto coagulare intorno a sé un naturale consenso, non solo perché contenutisticamente collimanti con il complesso dei valori delineato nella fonte ospitante, elemento fondativo dello stesso diritto penale, ma per la precipua funzione di garanzia assolta.

Il rischio di degenerazioni

Allocata nella Costituzione, la tutela penale obbligatoria è servente, infatti, alla piena attuazione di diritti e libertà fondamentali, da presidiarsi anche (e soprattutto) contro il rischio di possibili degenerazioni dell’esercizio del potere punitivo. Emblematica è l’unica clausola di incriminazione presente nel nostro ordinamento – l’art. 13, c. 4, Cost. – che pone l’obbligo di reprimere penalmente «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà»: il valore rispetto al quale si trova a soccombere la riserva di legge è la libertà personale, ovvero la garanzia che è alla base della legalità penale.

L’anima nobile messa in ombra

Questa anima “nobile” degli obblighi di tutela è stata messa in ombra, tuttavia, con la crescita esponenziale delle richieste di presidio penale di fonte sovranazionale, ora espressamente affidate dall’art. 83 TFUE a direttive europee, e, analogamente, per quelle di natura pattizia (valorizzate proprio con riguardo all’abuso di ufficio), al cui rispetto l’ordinamento è tenuto a norma dell’art. 117 Cost. Formalmente ossequiosi della riserva di legge, stante la necessità della loro traduzione in leggi dello Stato, si è al cospetto di input spesso stringenti in ordine all’an e al quantum di pena, di natura utilitaristica, in quanto volti ad assicurare l’effettività delle scelte politiche nei settori di competenza, con una marginalizzazione di fatto del legislatore nazionale, che una lettura cieca dell’obbligo di fedeltà e di leale collaborazione tende a far regredire al ruolo di mero scrivano. In tale contesto, l’insofferenza per forme di tutela al ribasso si radica, evidentemente, nella convinzione, lontana dall’impostazione tradizionale della disciplina, che il diritto penale possa ritenersi un valido instrumentum regni.

Sennonché la recente vicenda dell’abuso d’ufficio parrebbe riabilitare, almeno in astratto, lo spirito “puro” degli obblighi di tutela: la sua riviviscenza porterebbe a recuperare un argine contro forme di prevaricazione pubblica sui cittadini. La strada degli obblighi è, nondimeno, irta di ostacoli. Anche ove ci si misuri con indicazioni univoche di penalizzazione, dato tutt’altro che scontato e da verificare come pre-condizione operativa, in nessun caso si tratta di vincoli a senso unico, né ostativi a successivi ripensamenti del legislatore, sia in caso di diretta attuazione, ma ancora di più quando la normativa interna ne interseca del tutto casualmente l’osservanza. L’eventuale (sopravvenuta) inadempienza censurata davanti alla Corte costituzionale trova nella legalità – e, segnatamente, nell’incarnazione delle scelte politico-criminali in testi legislativi – un controlimite fondamentale, che è in linea con la limitata possibilità di interventi in malam partem per cesellature tecniche, non certo per azzeramenti di discrezionalità.

Caterina Paonessa

Autore

Professoressa associata di diritto penale