Cinquant’anni fa Marco Bellocchio diresse un film fantastico, che aveva tra i suoi attori Gianmaria Volontè, intitolato ”Sbatti il mostro in prima pagina”. Descriveva alcuni meccanismi del giornalismo che in questo mezzo secolo non sono cambiati molto. Il bisogno del male assoluto, più male di ogni male, più assoluto di ogni assoluto. È un meccanismo abbastanza semplice: si tratta di estrarre da un fatto sanguinoso di cronaca tutti gli elementi possibili della malvagità. Attenendosi talvolta ai fatti e molto spesso astraendosi dai fatti, o esagerandoli, o mitizzandoli, o romanzandoli. L’effetto è straordinario sul piano psicologico, garantisce il lettore sulla sua diversità dal malvagio, e per di più ha un risvolto – di tipo commerciale – molto apprezzato dai direttori e dagli elettori. Si vendono molte copie.

Tutto si fonda sull’idea che la società è divisa in due categorie: le persone perbene, che sono maggioranza e sono i consumatori – anche di giornali o Tv, ora di social – e un drappello di infami, da perseguire, frustare e indicare al pubblico ludibrio. È successo così anche stavolta. Coi fratelli Bianchi. Sappiamo pochissimo di loro, conosciamo solo le fotografie dei loro corpi perfetti e muscolosi e alcuni loro sguardi truci. Spesso succede così: si ricorre all’immagine per dimostrare la malvagità e la colpa. Andando molto oltre Lombroso e suoi studi reazionari. Sappiamo pochissimo anche di cosa sia successo sabato notte a Colleferro, quando è scoppiata una rissa ed è stato ucciso, a pugni e probabilmente con un calcio in testa, un ragazzo di 21 anni, Willy, originario di Capo Verde, colpevole assolutamente di niente e che, a quanto si è capito, è intervenuto nella lotta tra bulli solo per difendere un amico che era stato messo in mezzo.

Sappiamo pochissimo ma non ci interessa sapere. I giornalisti, e i giornali, e le tv, e tanto più i social, sono poco interessati a conoscere i fatti, vogliono solo conoscere e descrivere la profondità del male. Scrivono che il pestaggio è durato venti minuti – circostanza francamente alquanto inverosimile – scrivono che i due Bianchi avrebbero commentato il delitto con frasi razziste – e questo al momento non risulta – si indignano perché uno di loro, recentemente, aveva esaltato in tv il mestiere del fruttivendolo. Dicono che se fosse stato una persona seria non sarebbe stato così ipocrita da difendere i fruttivendoli, perchè solo le persone per bene fanno i fruttivendoli. Al momento noi non sappiamo con sicurezza nemmeno se siano effettivamente i fratelli Bianchi e i loro tre amici i responsabili dell’omicidio.

Sappiamo che c’è un omicidio, che un povero ragazzo ha perso la vita giovanissimo, che la sua famiglia è distrutta e che i magistrati stanno cercando di ricostruire i fatti e trovare i colpevoli, e anche di capire qual è la loro colpa – omicidio colposo? preterintenzionale? volontario – e che hanno precauzionalmente arrestato quattro persone sospettate. Punto. Sospettate non vuol dire colpevoli. Loro, al momento, si proclamano innocenti. Vedremo come si svilupperanno le indagini, cosa mostrano i filmati delle telecamere, quali sono le versioni dei testimoni e se sono coincidenti o – come quasi sempre accade nei casi di rissa – in contrasto l’una con l’altra. Poi, se ci sarà, assisteremo al processo. Intanto possiamo dire una sola cosa della quale siamo sicuri: i mostri non esistono.

Gli esseri umani sono essere umani, tutti e tutti nello stesso modo. Colpevoli o innocenti, cinici o sentimentali, generosi o avari, compassionevoli o feroci, ladri o onesti, violenti o miti. La ricerca del mostro è la più animalesca delle attività umane. E purtroppo riguarda una parte molto vasta della nostra intellettualità e dell’apparato della comunicazione.

P.S. Vorrei riferirvi una storia un po’ divertente che mi ha raccontato il mio amico Oreste Scalzone. Sapete chi è? Uno dei fondatori, a fine anni sessanta, di Potere Operaio, poi leader dell’Autonomia, condannato dai tribunali italiani per vari reati, soprattutto associativi, fuggito in Francia sotto la protezione di Mitterrand.

Mi ha raccontato di un corteo che attraversò le vie di Parigi, mi pare, nell’estate del 2002. Avevano arrestato uno degli esuli italiani in Francia, Paolo Persichetti (ex militante Br) e lo avevano estradato in Italia (Mitterrand non c’era più). Negli stessi giorni era stato liberato dalla prigione un vecchio collaborazionista (coi nazisti) novantenne, un certo Maurice Papon. Doveva scontare una condanna 10 anni e ne aveva passati in carcere solo tre, ma era molto malato. Il corteo ritmava uno slogan facile facile: “Persichetti libero, Papon in galera”. Scalzone era stato incaricato di tenere il comizio, a fine corteo.

Prese la parola: «Dirò una cosa che a voi non piace, ma io ne sono convinto e la dico: ho passato la vita a chiedere che le carceri siano rase al suolo, non chiederò mai che qualcuno vada in galera. Neanche Papon. Per me gli esseri umani sono tutti esseri umani». E concluse gridando, col pugno chiuso: «Persichetti libero, Persichetti libero…». Prese un grande applauso. Si stupì. Lo stupore durò pochissimo. Il corteo ripartì e gli stessi che lo avevano applaudito iniziarono a gridare, come prima: «Persichetti libero, Papon in galera». Non era servito a niente il suo discorso. Come, a occhio, non serve a niente questo articolo.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.